I salafiti e le loro letture delle fonti non sono così inequivocabili come potrebbe sembrare, perché il testo letterale del Corano non si risolve mai in un’interpretazione chiara ed evidente.
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:37:50
I salafiti e le loro letture delle fonti non sono così inequivocabili come potrebbe sembrare, perché il testo letterale del Corano non si risolve mai in un’interpretazione chiara ed evidente. Persino all’interno delle correnti estremiste religiose più violente ci sono importanti divergenze. E la vecchia al-Qaida, Scritture alla mano, su molte questioni non la vede come l’Isis.
Leggi anche: La storia dello Stato Islamico: dalla sua fondazione alla morte del califfo
Il termine “salafismo”, riferito alla corrente interna all’Islam i cui aderenti affermano di imitare “i pii predecessori” (al-salaf al-sālih) quanto più fedelmente e in quanti più ambiti della vita sia possibile, è a volte associato nel discorso mediatico, sia in Occidente sia nel mondo arabo, a etichette quali “ultra-ortodosso”, “estremo”, “radicale” e perfino “terrorista”. Data la pretesa degli stessi salafiti di non fare altro che rappresentare l’Islam in tutta la sua presunta purezza e seguire semplicemente le fonti – il Corano e la Sunna – queste etichette potrebbero essere non necessariamente applicabili. Lo è invece sicuramente il termine “fondamentalista”, se consideriamo la forte tendenza dei salafiti a rifiutare le “innovazioni” religiose (bida‘) che la tradizione islamica avrebbe accumulato nel corso dei secoli, e la loro convinzione di dover tornare ai primordi dell’Islam in tutti gli aspetti della vita[1].
Se in questo senso i salafiti sono certamente fondamentalisti, che rapporto c’è tra questo fatto e la loro lettura delle fonti, in particolare il Corano? I salafiti sono spesso descritti come persone che leggono il Libro sacro dell’Islam “alla lettera”, ma che cosa significa questo in pratica? Ed è vero che una lettura letterale del Corano produce necessariamente una spiegazione uniforme dei versetti del Libro in contesti diversi?
Occorre studiare le letture salafite delle fonti considerando innanzitutto la visione salafita della Scrittura e il modo in cui questa si differenzia dalle idee che gli altri musulmani hanno delle loro fonti testuali. Per mostrare come una lettura letterale del Corano non si risolva necessariamente in un’interpretazione chiara ed evidente può essere utile l’analisi di due versetti coranici specifici (8,12 e 47,4). In questo modo, emerge come i salafiti non soltanto si distinguano per la loro lettura delle fonti, come alcuni suggeriscono, ma anche come il Corano sia un testo più dinamico di quanto molti vorrebbero farci credere.
“Ripulire” la tradizione islamica
Per i musulmani di tutto il mondo il Corano è la parola letterale di Dio. Questo statuto non è però ugualmente riconosciuto alla Sunna, la consuetudine o la pratica del Profeta contenuta nella vasta raccolta di tradizioni (hadīth) che spiegano ai credenti ciò che Maometto avrebbe detto, fatto, consentito, proibito o rifiutato. Non sono solamente la composizione e la canonizzazione di questa raccolta di tradizioni a essere oggetto di contesa, per esempio tra musulmani sunniti e sciiti, ma è il suo stesso statuto di fonte della legge islamica a creare disaccordo. Nel corso della storia islamica alcuni credenti, tra cui gli ahl al-hadīth (la gente della tradizione) dei primi tempi dell’Islam e i loro più recenti successori ideologici, hanno sottolineato l’importanza di fondare i propri pareri giuridici sulla pratica del Profeta così come questa è stata trasmessa attraverso gli hadīth, piuttosto che sulle sentenze degli ulema, i quali consideravano tali tradizioni come una delle fonti della legge islamica (sharī‘a). Alla fine il Corano e la Sunna divennero le fonti più importanti, anche se non le uniche, dalle quali la maggior parte dei dotti musulmani ricavavano il proprio sistema giuridico.
Per i salafiti, il ricorso ad altre fonti giuridiche al di fuori del Corano e della Sunna è particolarmente problematico. Essi ritengono che, poiché gli ulema si sono basati erroneamente su fonti extra-testuali – come l’opinione personale (ra’y) –, nella religione si siano insinuate norme che non sono del tutto riconducibili al Corano e alla Sunna, con un conseguente lento ma costante allontanamento dai “pii predecessori” che ha macchiato la “purezza” dell’Islam. Questa consapevolezza ha indotto i salafiti contemporanei, il più celebre dei quali è il dotto siriano Muhammad Nāsir al-Dīn al-Albānī (1914-1999), a cercare di “ripulire” la tradizione islamica da queste supposte bida‘.
Quest’operazione di pulizia ha talvolta significato la separazione degli hadīth “falsi” da quelli “autentici” in modo da ottenere un quadro migliore e più chiaro della vita di Muhammad che i salafiti ritengono tanto degna di imitazione[2]; altre volta ha significato il rifiuto totale dell’imitazione cieca (taqlīd) delle scuole giuridiche (madhāhib), che rappresentano l’accumulo del pensiero giuridico erudito. Come tali, i salafiti hanno la tendenza a scavalcare secoli di tradizione islamica per risalire alle fonti originali, alle quali si accostano con un’interpretazione diretta, indipendente da quella elaborata all’interno delle scuole giuridiche islamiche (ijtihād)[3].
Tra rivelazione e ragione
Per molti secoli il grado di importanza che i musulmani devono attribuire al testo coranico rispetto ad altre fonti di ispirazione è stata oggetto di dibattito tra gli studiosi, così come lo sono stati il rango esatto e il peso delle fonti testuali dell’Islam nella formazione del diritto islamico. Questi dibattiti vertevano spesso sulla misura in cui si sarebbe dovuto consentire alla ragione (‘aql) di completare la rivelazione (wahy) del Corano. In altre parole, bisogna semplicemente seguire il testo coranico anche qualora questo fornisca risposte contrastanti o non ne fornisca alcuna, oppure c’è spazio per un ragionamento umano basato sull’intelletto? Le diverse correnti all’interno dell’Islam rispondono a questa domanda in maniera piuttosto diversa.
La questione della concorrenza tra rivelazione e ragione – sebbene di fatto ci sia sempre stata una combinazione di entrambe – è stata almeno in parte il risultato dall’ascesa tra i musulmani della filosofia razionale greca; uomini come Avicenna (m. 1037) e Averroè (m. 1198) furono forse i massimi esponenti musulmani di questa corrente. Nonostante i filosofi musulmani sostenessero che il loro uso della logica (mantiq) non contraddicesse la rivelazione – a condizione naturalmente che quest’ultima fosse compresa in maniera corretta – il celebre dotto Abū Hāmid al-Ghazālī (m. 1111) pensava diversamente e contestò le loro conclusioni. Tuttavia al-Ghazālī e gli altri dotti non rifiutarono del tutto la ragion; la logica come strumento argomentativo fu incorporato alla teologia islamica speculativa (kalām), che fu adottata, per esempio, dal movimento mu‘tazilita medievale (scuola teologica razionalista, NdR). Tuttavia molte dottrine in cui credevano i mu‘taziliti applicando la ragione (‘aql) erano piuttosto controverse, per esempio l’idea che il Corano fosse creato. Una forma più moderata d’integrazione del razionalismo nell’Islam fu quella elaborata da Abū al-Hasan al-Ash‘arī (874-936) e dai suoi seguaci, che combinarono rivelazione e ragione in un modo più concorde con la prima ma che non rifiutava del tutto la seconda. Tuttavia per Ahmad Ibn Hanbal (780-855) e i suoi seguaci questo non era abbastanza. E così essi insistettero sulla necessità di affidarsi ancora di più alla rivelazione a scapito della ragione[4].
Le mani e gli occhi di Dio
Quanto alla lettura delle fonti, questi gruppi divergevano gli uni dagli altri, come emerge chiaramente dalla loro interpretazione dei versetti coranici sugli attributi di Dio, in cui si inizia a notare anche che la lettura “letterale” di questi testi non produce sempre un’interpretazione uniforme. Il Corano menziona diverse caratteristiche di Dio, per esempio il fatto di avere occhi (54,14), un volto (55,27) e delle mani (38,75). Questi versetti naturalmente possono essere letti “letteralmente” e considerati per quello che sono, come fanno gli antropomorfisti (mushabbiha) e i corporalisti (mujassima), e supporre che Dio abbia occhi come gli esseri umani. Questo tuttavia contrasterebbe evidentemente con il verso che recita «non v’ha simile a Lui cosa alcuna» (42,11). Se infatti nulla è paragonabile a Dio, come possono i suoi occhi somigliare ai nostri?
Tale problema non riguardava solamente gli attributi di Dio, ma aveva anche implicazioni per il metodo con cui veniva letta la scrittura. Ciascuna delle correnti e degli studiosi menzionati aveva un proprio modo di leggere le fonti per risolverlo. I mu‘taziliti interpretavano i versetti sugli attributi fisici di Dio in maniera metaforica (ta‘wīl), equiparandoli a qualità più grandi, come il discernimento e la potenza, anziché a occhi e mani reali, mostrando in questo modo di volersi scostare dal testo letterale del Corano. Dall’altra parte, gli hanbaliti leggevano questi versetti alla lettera e accettavano l’idea che Dio avesse apparentemente occhi e mani reali, ma diversi dalla forma che queste parti del corpo hanno negli esseri umani o animali. Essi hanno perciò accettato i testi come letteralmente veri ma senza ricorrere all’antropomorfismo e, soprattutto, “senza chiedere come” (bi-lā kayfa) questo possa essere spiegato. La corrente ash‘arita, che può dirsi rappresentativa dell’ortodossia sunnita, ha imboccato una via di mezzo, simile alla linea hanbalita, ma che consentiva una maggiore speculazione sulla forma degli attributi di Dio[5].
La visione dei salafiti su questo aspetto ruota attorno al concetto di tawhīd al-asmā’ wa-l-sifāt (l’unità dei nomi e degli attributi [di Dio]). Insistendo sul ritorno all’Islam così come era praticato dai “pii predecessori”, i salafiti fanno forte affidamento sui concetti più precoci della religione islamica, tra cui quello dell’unità di Dio. Credono che Dio sia unico non soltanto nel senso di essere l’unica divinità, ma anche in tutti i suoi attributi. Seguono perciò in gran parte, se non completamente, la linea di pensiero hanbalita su questo tema, e sostengono che i testi sugli attributi di Dio debbano essere presi alla lettera ma allo stesso tempo conciliati con il versetto 42,11. Lo fanno accettando i versetti “senza una designazione descrittiva” (bi-lā takyīf). In questo senso la vicinanza salafita agli hanbaliti non sorprende, visto che entrambi i gruppi accettano la superiorità della rivelazione sulla teologia speculativa e sulla ragione e vogliono fondarsi il più possibile su una lettura letterale del Corano[6].
I salafiti dunque leggono il Corano alla lettera. Ciò non significa però che i testi siano sempre chiari e inequivoci, anche se apparentemente sembrano tali. Una di queste differenze interpretative, radicata nella lettura letterale del testo, si ritrova in due diverse spiegazioni dei versetti coranici 8,12 e 47,4, che parlano del taglio della testa delle persone e che sono stati utilizzati dallo Stato Islamico nel 2014 per giustificare la decapitazione del giornalista americano James Foley. È interessante notare che le due interpretazioni sono tratte da un dotto che sostiene lo Stato Islamico e da uno che sostiene al-Qaida. Nonostante abbiano opinioni piuttosto divergenti su alcune questioni, si tratta di due gruppi abbastanza simili, nel senso che entrambi si collocano nella corrente del salafismo-jihadista, cioè quel ramo del salafismo i cui seguaci ritengono che il jihad non dovrebbe essere diretto solamente contro i non-musulmani al di fuori del mondo musulmano, ma anche contro i presunti governanti “apostati” degli stessi Paesi musulmani.
La decapitazione secondo lo Stato Islamico
Il 19 agosto 2014 è stato postato su YouTube il video della decapitazione del giornalista americano James Foley, a quanto sembra per mano del combattente britannico dello Stato Islamico Mohammed “Jihadi John” Emwazi (m. 2015). Il video ha catalizzato l’attenzione di tutto il mondo e scioccato indistintamente molti musulmani e non-musulmani. Nell’apparente sforzo dell’Isis di giustificare questo atto agli occhi dei musulmani, il 20 agosto 2014, il giorno successivo al caricamento del video, è stato pubblicato un articolo in cui si spiegava la decapitazione di Foley. L’autore, un sostenitore dell’Isis noto come Husayn Ibn Mahmūd e che scrive regolarmente di questioni legate allo Stato Islamico, ha cercato di difendere sia l’uccisione di Foley sia il modo in cui questa è stata compiuta in ossequio all’Islam[7].
Ibn Mahmūd sostiene che l’uccisione di James Foley da parte dello Stato Islamico sia pienamente giustificata dalla sharī‘a. La ragione di questo, afferma Ibn Mahmūd, è che Foley (“un cristiano americano”) era entrato nello Stato dell’Islam, sapendo che era “lo Stato dell’Islam’, senza concludere un patto (‘ahd). Nell’Islam classico questo termine si riferisce, tra le altre cose, all’accordo o all’alleanza conclusa tra uno Stato islamico da un lato e un soggetto non-musulmano dall’altro, permettendo a quest’ultimo di transitare in sicurezza nello Stato islamico o fare affari con esso. Questa persona sarebbe infatti considerata musta’min (in possesso di amān, salvacondotto) e non le si potrebbe nuocere[8].
Applicando senza soluzione di continuità le nozioni classiche di ‘ahd e amān all’attuale Stato Islamico, Ibn Mahmūd sostiene che siccome Foley non aveva stipulato alcun accordo con lo Stato Islamico è stato giustamente ritenuto uno straniero nemico (harbī). Afferma inoltre che «i dotti concordano all’unanimità sulla liceità di uccidere il miscredente straniero (al-kāfir al-harbī), e sul fatto che i suoi possedimenti e il suo sangue siano leciti, mentre la maggior parte [degli studiosi concorda anche sul fatto che] sia lecito ucciderlo qualora sia catturato».
L’uccisione di Foley non è dunque stata un fatto straordinario, afferma Ibn Mahmūd domandando in maniera sarcastica: «Ci si aspettava forse che i soldati dello Stato [Islamico] dessero a questo nemico straniero americano una pacca sulla spalla?»
Quanto al metodo utilizzato per uccidere Foley, Ibn Mahmūd ritiene che non dovrebbe trattarsi di un fatto controverso. Sebbene riconosca che i dotti non concordano sulla liceità di rimuovere la testa delle persone decapitate, egli sostiene che decapitare i nemici non-musulmani sia lecito. Affermando che si tratta di un mezzo per «seminare la paura nel cuore [dei nemici]», Ibn Mahmūd spiega che la decapitazione degli avversari non-musulmani è stata ordinata da Dio stesso: «E quando incontrate in battaglia quei che rifiutan la Fede, colpite le cervici (darb al-riqāb), finché li avrete ridotti a vostra mercé, poi stringete bene i ceppi: dopo, o fate loro grazia oppure chiedete il prezzo del riscatto, finché la guerra non abbia deposto il suo carico d’armi» (47,4). Egli cita poi diversi studiosi classici che sottolineano come questo versetto si riferisca proprio alla decapitazione delle persone, e un esegeta che la collega al versetto coranico che recita: «Percuotete dunque le cervici (fa-dribū fawqa l-a‘nāq), percuotete e spezzate ogni dito» (8,12). Ibn Mahmūd afferma poi che il profeta Muhammad non ha proibito in generale la decapitazione, ma in casi specifici ha soltanto dissuaso altri dal farlo. Perciò, secondo Ibn Mahmūd, la decapitazione di James Foley era pienamente giustificata dal Corano.
La decapitazione secondo al-Qaida
Se interpretati letteralmente e soprattutto se considerati nel contesto descritto da Ibn Mahmūd, i versetti citati sopra sembrano parlare da soli e giustificare la decapitazione di Foley per ragioni islamiche. Tuttavia, lo shaykh giordano salafita-jihadista, sostenitore di al-Qaida, Abū Mahmūd al-Filastīnī, vede questi versetti in maniera totalmente diversa. In un trattato interamente dedicato alla confutazione di «quelli che pensano che l’uccisione mediante sgozzamento sia conforme alla Sunna [del Profeta Muhammad]», lo shaykh si prefigge di confutare alcune affermazioni riportate sopra senza nominare esplicitamente lo Stato Islamico, pur riferendosi chiaramente a quest’ultimo. Citando il versetto 21,107 del Corano – «e te non abbiamo inviato che in segno di misericordia (rahmatan) pel mondo» (21,107) – egli afferma che la misericordia (rahma) è parte centrale del Corano e del messaggio islamico all’umanità. Secondo al-Filastīnī, questo concetto deve a sua volta pervadere ogni attività dei musulmani, e cita a questo proposito un hadīth in cui Muhammad afferma: «Dio ha prescritto la perfezione (al-ihsān) in ogni cosa. Perciò se uccidete, uccidete bene, se macellate, macellate bene […]». Questo significa – dice al-Filastīnī – che i musulmani devono mostrare misericordia in ogni cosa, anche quando uccidono gli altri[9].
Rispetto alla decapitazione, al-Filastīnī sostiene che i dotti divergono sulla questione, ma che nessuno ha mai affermato trattarsi di un’abitudine del Profeta. Egli aggiunge anche che è falso dire che il Profeta e i primi califfi sia siano compiaciuti di questa pratica o l’abbiano trasformata in una consuetudine. Ed è ancora più risoluto quado esamina i due versetti citati da Ibn Mahmūd a giustificazione della decapitazione di Foley. Secondo al-Filastīnī infatti i versetti non sono applicabili a quel caso perché colpire la cervice dei nemici, come recita il testo, era semplicemente il modo in cui le persone uccidevano a quel tempo. Ciò, tuttavia, non fa di questo metodo la via preferenziale per uccidere in conformità con la Sunna – dice al-Filastīnī.
Inoltre, la ragione per cui al tempo del Profeta le persone utilizzavano questo metodo risiedeva nel fatto di essere quello più semplice per chi attaccava e quello meno doloroso per la persona uccisa, ottemperando così all’onnicomprensiva nozione islamica di misericordia. Al-Filastīnī trova un’ulteriore prova a sostegno del suo punto di vista nei testi che – come Ibn Mahmūd – legge alla lettera. Ciò che i testi dei versetti realmente dicono, afferma al-Filastīnī, è che si dovrebbe “colpire” (fa-dribū o darba) la nuca dei nemici, assicurando una morte rapida e senza tortura. E, aggiunge ancora al-Filastīnī, le decapitazioni che abbiamo visto negli anni scorsi sono invece esempi di sgozzamento (dhabh), non di colpi alla cervice. Quindi al-Filastīnī, che non è comunque un sostenitore della decapitazione delle persone per la mancanza di prove profetiche vincolanti a sostegno di questa pratica, ritiene che il verbo specifico utilizzato nei due versetti coranici confermi il suo punto di vista, cioè che lo sgozzamento lento e doloroso di uomini come James Foley sia illegittimo dal punto di vista islamico[10].
La profondità del Corano
L’affermazione che i salafiti leggono il Corano alla lettera è vera, e questo li distingue da molti altri gruppi che fanno parte della storia islamica. Essi esasperano questo atteggiamento a tal punto da arrivare talvolta ad accettare il testo del Corano senza capirne veramente il significato. Questo non significa però che le letture salafite delle fonti siano sempre le stesse o siano sempre chiare. Oltre ai fattori contestuali che influiscono sulle interpretazioni salafite, le due letture salafite-jihadiste di Corano 8,12 e 47,4 hanno dimostrato che due gruppi così ideologicamente vicini come lo Stato Islamico e al-Qaida possono trovarsi a divergere non poco: un sostenitore del primo gruppo ritiene che questi versetti provino la legittimità della decapitazione del giornalista americano James Foley avvenuta nel 2014, mentre un sostenitore del secondo gruppo ritiene che essi la proibiscano. Questo dimostra non soltanto che i salafiti e le loro letture delle fonti non sono così inequivocabili come potrebbe sembrare, ma anche che il testo letterale del Corano ha una profondità forse non così evidente ma innegabile.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] La definizione di fondamentalismo data da Michael Cook nel suo ultimo libro può, per esempio, essere applicata con una certa efficacia ai salafiti. Si veda Michael Cook, Ancient Religions, Modern Politics: The Islamic Case in Comparative Perspective, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2014, pp. 371-380.
[2] Kamaruddin Amin, Nasiruddin al-Albani on Muslim’s Sahih: A Critical Study of his Method, «Islamic Law and Society» 11 (2004), n. 2, pp. 149-176.
[3] Jonathan A.C. Brown,Is Islam Easy to Understand or Not? Salafis, the Democratization of Interpretation and the Need for the Ulema, «Journal of Islamic Studies» 26 (2015), n. 2, pp. 117-144.
[4] Oliver Leaman, The Developed Kalām Tradition in Tim Winter (a cura di) The Cambridge Companion to Classical Islamic Theology, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 77-86.
[5] Nader el-Bizri, God: Essence and Attributes in Ibid. pp. 121-131.
[6] Mohammad Gharaibeh, Zur Glaubenslehre des Salafismus in Behnam T. Said e Hazim Fouad (a cura di) Salafismus: Auf der Suche nach dem wahren Islam, Herder, Freiburg 2014, pp. 110-124.
[7] Husayn Ibn Mahmūd, Mas’alat Qat‘ al-Ru’ūs (http://justpaste.it/gran, 20 August 2014 [consultato il 3 novembre 2014]. Questo link non è più attivo ma l’articolo è ancora disponibile su http://jihadology.net/2014/08/20/new-article-from-shaykh-%E1%B8%A5ussayn-bin-ma%E1%B8%A5mud-the-question-of-beheadings/ (consultato l’8 febbraio 2016).
[8] Joseph Schacht, “‘Ahd” e “Aman” in Encyclopaedia of Islam (2° ed.), Vol. I, E.J. Brill, Leiden 1960, pp. 255, 429-430.
[9] Abū Mahmūd al-Filastīnī, Tabdīd al-asinna fī l-radd ‘alā man zanna anna l-qatl dhabhan sunna, disponibile su www.tawhed.ws/dl?i=17091401 (consultato il 18 settembre2014). Questo sito web non esiste più ma il documento può essere scaricato da http://justpaste.it/h58y (consultato l’8 febbraio 2016).
[10] Al-Filastīnī non è l’unico a giungere a queste conclusioni e le sue dichiarazioni, lungi dal rappresentare esclusivamente il suo punto di vista personale, sono ampiamente condivise dai sostenitori di al-Qaida. Si veda, per esempio, Joas Wagemakers, What Should an Islamic State Look Like? Jihadi-Salafi Debates on Jihad in Syria, «The Muslim World» (in corso di pubblicazione).