Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:53
Erano trascorsi pochi anni da quando, il 24 agosto del 410, i Visigoti di Alarico, dopo aver sfondato le ultime resistenze, si erano abbandonati per alcuni giorni ad un feroce saccheggio della città di Roma. Quell'episodio aveva rinfocolato polemiche mai sopite da parte degli intellettuali pagani: gli dèi avevano voltato le spalle all'impero romano, perché esso era sceso a patti con i seguaci di quella strana religione, che predicava valori "politicamente scorretti" come l'uguaglianza di tutti schiavi e liberi dinanzi all'unico Dio misericordioso, e persino l'amore come dono gratuito verso ogni persona, comprese le più deboli e insignificanti; un amore che doveva spingersi fino al perdono, addirittura al perdono del nemico. Come poter "estrarre" dal principio di un amore misericordioso, fatto coincidere con l'essenza stessa di Dio come Padre, che aveva mandato Suo Figlio incontro alla crocifissione, una civiltà nuova, in grado di esprimere una forma di governo, di alimentare un diritto, di legalizzare l'uso della forza? E poi, perché mai il dio professato dai cristiani non poteva entrare nel pantheon romano ed essere posto sullo stesso piano di tutti gli altri, nel segno di una convivenza sincretistica che aveva garantito pace e prosperità per tanto tempo? Agostino era Vescovo di Ippona una località costiera nell'attuale Algeria quando fu chiamato a fronteggiare quelle accuse e ad entrare nella mischia. Lo fece mettendo in cantiere un'opera monumentale in ventidue libri, la cui stesura durerà circa quattordici anni (dal 412 al 426). L'architettura interna dell'opera, che nel nome De civitate Dei intreccia insieme la lezione biblica e il confronto con una gloriosa tradizione pagana, ne riflette il disegno ambizioso: la prima parte, comprendente dieci libri, contiene una requisitoria documentata e impietosa contro le false promesse del politeismo, incapace di garantire successo e fortuna nella vita temporale (I-V), e a maggior ragione beatitudine dopo la morte (VI-X); la seconda parte, in dodici libri, offre, in positivo, una lettura alternativa della storia dell'umanità, ripensata come un grande affresco in tre tempi, che racconta l'origine (XI-XIV), lo sviluppo (XV-XVIII) e l'esito ultimo (XIX-XXII) di due città. Intese in senso "mistico", come due comunità alternative di vita e di culto, fondate su due modi opposti di vivere l'amore, la città di Dio e la città terrena differiscono in rapporto al diverso orientamento assunto rispetto al mistero della creazione e redenzione: la prima lo accoglie nell'umiltà, la seconda lo rifiuta, chiudendosi nel circolo vizioso di una disastrosa autoaffermazione. Il libro XIX, di cui si presentano alcune pagine fra le più intense e significative di tutta l'opera, apre la terza e ultima sezione di questa seconda parte, dove la trattazione iniziale intorno alla dottrina del sommo bene si trasforma in un grande inno alla pace. Se è vero, infatti, che per un cittadino della civitas Dei il sommo bene è la vita eterna e il sommo male la morte eterna, ciò che conta è la ricerca del fine ultimo, che rappresenta il baricentro imprescindibile nella vita dei singoli e delle comunità. Questa tensione verso il fine rappresenta la cifra fondamentale dell'universo creato e il suo nome è la pace. Secondo Agostino, la pace attesta l'equilibrio radicale di ogni essere nell'ordine della creazione; un equilibrio che nelle creature razionali diviene un valore da edificare liberamente nella prospettiva di un ordo amoris. C'è dunque un livello ontologico originario, in cui la pace s'annuncia come "costituzione ordinata delle parti", come "tranquillitas ordinis", e un livello etico-politico, che si trasforma storicamente in un compito di faticosa e doverosa compaginazione sociale. Ad una pace come espressione dell'essere corrisponde una pace come espressione dell'amore (XIX, 13-14). Nasce da qui la possibilità di un punto di tangenza fra credenti e non credenti, tutti vincolati all'edificazione di un'ordinata concordia nella vita terrena (XIX, 17). L'uguaglianza degli uomini davanti a Dio, infatti, è espressione di un originario legame creaturale che non autorizza nessuna forma di potestas naturalis dell'uomo sull'uomo. Se la pace esprime il telos del bene ad ogni livello, razionale e irrazionale, dell'universo creato, nella vita di relazione essa esprime il medesimo telos del bene, che deve attuarsi nella forma di un'ordinata concordia, articolata gerarchicamente secondo livelli crescenti di complessità (domus, urbs, orbis, mundus). Si apre a questo punto lo spazio di un'armonica convivenza fra le due città e la pace è l'ambito concreto e positivo di tale incontro: rispetto alla civitas terrena, che per perseguire il suo fine nella terra ha comunque bisogno di concordia, la civitas Dei peregrina è chiamata ad accogliere quella pace che nell'ordine temporale è solo una res, riconoscendole la valenza ulteriore e liberante di signum. In altri termini, nella pace temporale la civitas Dei peregrina deve essere fedele al signum rispettando la res (assumere cioè la pace temporale come anticipazione della pace eterna), mentre la civitas terrena può essere fedele alla res rispettando il signum, evitando di porre il fragile ordine terreno come fine assoluto. La civitas Dei peregrina, infatti, tende, in virtù della grazia, alla pax aeterna, ma vive, in virtù della natura, nella pax terrena. La pace temporale diviene così espressione di un ordine e di un valore relativo, punto d'arrivo nella minima aspirazione naturale di Babilonia e insieme punto di partenza di quella massima tensione unificante, nella quale si può annunciare ed anticipare la pace di Gerusalemme.