È stato definito “Il Faraone”, “L’Imperatore”, “La Leggenda”, “L’ugola d’oro del Sudan”. Ma oltre che un grande cantante, Wardi è stato anche un attivista politico. E la sua biografia è uno spaccato della storia contemporanea del Paese africano
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 11:57:08
La scena musicale sudanese è di una ricchezza esuberante. Eppure, così come ci si dimentica spesso del Sudan e delle lezioni che può indicare negli sviluppi geopolitici del mondo arabo, si trascura tutto quello che offre il suo sound.
La geografia musicale del Paese, come quella politica e fisica, spazia tra ritmi, lingue, etnie e panorami sonici diversissimi e la sua industria musicale è tra le più floride dell’Africa orientale.
Impossibile presentare tutta questa immensità in poche puntate. Piuttosto, per orientarci un po’ nella storia della musica e della politica sudanese, seguiremo nella presentazione del “classico” di oggi la biografia di Mohammed Wardi, un cantante che è stato definito “Il Faraone”, “L’Imperatore”, “La Leggenda”, “L’Ultimo Re dei Nubiani”, “L’Ugola d’oro sudanese” e tra i migliori cantanti africani. Insomma, sarà anche una goccia nell’oceano, ma promette bene.
Tralasciando a malincuore l’interessante scena culturale sudanese che già nel 1924 si ribellava (anche musicalmente) alla presenza coloniale britannica, partiamo dal 19 luglio 1932, quando in un piccolo villaggio di etnia nubiana chiamato Sawarda (vicino a Wadi Halfa, a due passi dal Nilo e dal confine con l’Egitto) nasce Mohammed Wardi. Orfano a nove anni, e abbandonata a poco più di vent’anni una già stabile carriera come insegnante di musica, Wardi si butta nella frenetica Khartoum degli anni ’50, città da poco divenuta la capitale del Sudan indipendente da Gran Bretagna ed Egitto (1956). Mohammed, autodidatta, inizia allora a cantare alla radio, in particolare alla stazione Huna Omdurman, creata dagli inglesi negli anni ’40 ma trasformatasi gradualmente in una radio “nazionale” sudanese. Sarà un successo dopo l’altro: avvalendosi di collaborazioni con i più grandi poeti sudanesi e non (qui una lista), Wardi diventerà uno dei cantanti e attivisti più influenti e rappresentativi della dinamica scena musicale del suo Paese.
La storia di Wardi ci interessa particolarmente perché è inscindibilmente legata al suo attivismo politico (di sinistra, fu membro del Partito comunista sudanese) e, in generale, alla storia recente del Sudan.
Nel 1958, dopo solo due anni di indipendenza, con un colpo di stato il generale Ibrahim Abboud, sale al potere. Tra i successi di Wardi, convinto oppositore di Abboud, troviamo il brano Uktubir Akhdar (“Ottobre verde”), dedicato alla forza del popolo che può «far cadere i muri della prigione», esattamente ciò che avvenne nell’ottobre 1964 durante le rivolte popolari che spazzarono via il generale golpista e inaugurarono un governo civile. Da quell’ottobre nacquero le Uktubiriyaat (“le ottobrine”), poesie e canzoni volte a raccontare e celebrare gli eventi di quell’anno. Infine, di quel periodo fa parte anche Asbah al-Subh (“Il mattino è arrivato”, qui un mitico live), canzone di Wardi dedicata in particolare agli studenti che si opposero ad Abboud.
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Nel 1969 il Sudan visse un altro colpo di stato, questa volta orchestrato dal generale Ja‘far al-Nimeyri. Se in principio Wardi appoggiò le politiche “socialiste” di quest’ultimo, cambiò poi idea di fronte alle feroci repressioni dei dissidenti (tra cui lui stesso, imprigionato), a leggi che limitavano la libertà di espressione producendo, tra l’altro, il conseguente declino dell’industria musicale. In un primo esilio auto-imposto, interpretò alcune canzoni come Banadeeha (“La sto chiamando”) in cui criticava al-Nimeyri e, con brani come Ya Sha’aban Lahabak Thouritak (“O Popolo, la tua rivoluzione si è infiammata”) e la canzone di oggi Hanabnīhu ( “La costruiremo!”), appoggiò il moto di protesta popolare che avrebbe portato a un nuovo governo civile nel 1985.
Il vero esilio (tra Cairo e Stati Uniti) arriva però nel 1989, con l’ulteriore colpo di stato di Omar al-Bashir, rimasto in carica esattamente 30 anni, fino alle recenti rivolte popolari sudanesi iniziate nel 2018, che lo hanno destituito nell’aprile 2019.
Sono di quel periodo pietre miliari come al-Mursal (“Il Messaggero”), Balad Rayeh (“Il Paese è perso”) e soprattutto Sallim Mafateeh Al Balad (“Dacci le chiavi del Paese”), ritornata celebre, come tante altre sue canzoni, in versioni “attualizzate” (come quella dell’artista Zoozita) e riprese a gran voce durante le più recenti proteste.
Mohammed Wardi, così come la musica in Sudan, è un tesoro da scoprire: non abbiamo esposto le sue canzoni in nubiano, quelle per l’unità sudanese, quelle dedicate alla diaspora sudanese, quelle contro ogni sorta di razzismo e le decine di canzoni d’amore. Non abbiamo parlato di alcuni momenti leggendari, come il suo concerto davanti a migliaia di sfollati sudanesi nel campo profughi di Itang (Etiopia) nel 1990, di quel fan venuto a piedi dal Mali per chiedergli un autografo a cui lui pagò il volo di ritorno e del suo ritorno trionfale in Sudan nel 2002.
Insomma, in Sudan, con la nostra rubrica T-arab, ci ritorneremo sicuramente. Se nel mentre desiderate uno strumento per approfondire un po’ di più, consiglio di visitare The Sounds of Sudan, un’iniziativa nata nel 2018 che mira a preservare e celebrare la cultura musicale del Sudan.
Buon tarab!
[Qui tutte le puntate di T-arab; dopo il video il testo della canzone in italiano e arabo]
Canzone: Hanabnīhu
Artista: Mohammed Wardi
Anno: 1985
Nazione: Sudan
La costruiremo!
Costruiremo
Ciò che sogniamo ogni giorno
Una nazione fiera! Una nazione forte!
Una nazione per bene, democratica!
Costruiremo
Una nazione che sia padrona del suo destino,
di fuoco ardente![1]
Una nazione cara!
Le cui stelle brillino in cielo!
Volontà, sovranità e libertà!
Al posto di individui, la nostra leadership collettiva!
Al posto delle prigioni, ospedali!
Al posto dell’esilio, scuole![2]
Al posto dei prigionieri, rose!
Al posto dei sospiri di dolore,[3] canzoni!
Al posto dei proiettili, uccellini
Che volteggeranno tra le fontane
Giocherellando con i bambini dell’asilo
Costruiremo
Ciò che sogniamo ogni giorno
Una nazione fiera! Una nazione forte!
Una nazione per bene, democratica!
Costruiremo
Ciò che sogniamo ogni giorno
Una nazione che spicchi il volo verso la pace
Le cui armi rifuggano la guerra
Niente le sia superiore o inferiore!
Una nazione che sostenga coloro la cui terra è occupata
E aiuti chi ha perso il controllo del proprio destino![4]
Costruiremo
Ciò che sogniamo ogni giorno
Una nazione con confini senza fine[5]
Non possiamo costruirla individualmente!
Né con questo rumore fastidioso alla radio![6]
Né con discorsi infervorati!
Costruiremo
Ciò che sogniamo ogni giorno
Una nazione dove vi sia uguaglianza
Dove potremo sognare, studiare,[7] e curarci!
Dove potremo avere una casa, elettricità e acqua
Le tenebre scompariranno sotto i nostri piedi
E il sole un tempo soppresso
Sorgerà vittorioso grazie al popolo valente,
Lasciando il mondo senza fiato!
Volontà e unità popolare!
حنبنيهُ
حنبنيهُ
ﺍللي بنحلم بيهُ ﻳﻮﻣﺎتي
ﻭﻃﻦ ﺷﺎﻣﺦ ﻭﻃﻦ ﻋﺎﺗﻲ
ﻭﻃﻦ ﺧﻴّﺮ ﺩﻳﻤﻘﺮﺍﻃﻲ
حنبنيهُ
ﻭﻃﻦ ﻣﺎﻟﻚ ﺯﻣﺎﻡ ﺃﻣﺮه
ﻭﻣﺘﻮﻫّﺞ ﻟﻬﺐ ﺟﻤﺮه
ﻭﻃﻦ ﻏﺎﻟﻲ
ﻧﺠﻮمه ﺗﻼلي ﻓﻲ ﺍﻟﻌﺎﻟﻲ
ﺇﺭﺍﺩﺓ ﺳﻴﺎﺩﺓ ﺣﺮﻳﺔ
ﻣﻜﺎﻥ ﺍﻟﻔﺮﺩ ﺗﺘﻘﺪﻡ ﻗﻴﺎﺩﺗﻨﺎ ﺍﻟﺠﻤﺎﻋﻴﺔ
ﻣﻜﺎﻥ ﺍﻟﺴﺠﻦ مستشفى
ﻣﻜﺎﻥ المنفى ﻛﻠﻴّﺔ
ﻣﻜﺎﻥ الأسرى ﻭﺭﺩﻳﺔ
ﻣﻜﺎﻥ ﺍﻟﺤﺴﺮﺓ ﺃﻏﻨﻴﺔ
ﻣﻜﺎﻥ ﺍﻟﻄﻠﻘﺔ ﻋﺼﻔﻮﺭﺓ
وﺗﺤﻠّﻖ ﺣﻮﻝ ﻧﺎﻓﻮﺭﺓ
وﺗﻤﺎﺯﺡ ﺷُﻔّﻊ ﺍﻟﺮﻭﺿﺔ
حنبنيهُ
ﺍللي بنحلم بيهُ ﻳﻮﻣﺎتي
ﻭﻃﻦ ﺷﺎﻣﺦ ﻭﻃﻦ ﻋﺎﺗﻲ
ﻭﻃﻦ ﺧﻴّﺮ ﺩﻳﻤﻘﺮﺍﻃﻲ
حنبنيهُ
ﻭﻃﻦ ﻟﻠﺴﻠﻢ ﺃجنحته
ﺿﺪ ﺍﻟﺤﺮﺏ أسلحته
ﻋﺪﺩ ﻣﺎ فوقه ﻣﺎ تحته
ﻣﺪﺩ للي أرضه ﻣﺤﺘﻠّﺔ
وﺳﻨﺪ للي إيده ﻣﻠﻮﻳّﺔ
ﻭﻃﻦ ﺣﺪّﺍﺩﻱ ﻣﺪّﺍﺩﻱ
وﻣﺎ ﺑﻨﺒﻨﻴﻪ ﻓﺮّﺍﺩﻱ
ﻭﻻ ﺑﺎﻟﻀﺠﺔ ﻓﻲ ﺍﻟﺮﺍﺩي
ﻭﻻ ﺍﻟﺨﻄﺐ ﺍﻟﺤﻤﺎﺳﻴﺔ
حنبنيهُ
ﺍللي بنحلم بيهُ ﻳﻮﻣﺎتي
ﻭﻃﻦ ﺷﺎﻣﺦ ﻭﻃﻦ ﻋﺎﺗﻲ
ﻭﻃﻦ ﺧﻴّﺮ ﺩﻳﻤﻘﺮﺍﻃﻲ
حنبنيهُ
ﻭﻃﻦ باللي فيهُ ﻧﺘﺴﺎﻭﻯ
ﻧﺤﻠﻢ ﻧﻘﺮﺍ ﻧﺘﺪﺍﻭﻯ
ﻣﺴﺎﻛﻦ ﻛﻬﺮﺑﺎ ﻭموية
ﺗﺤﺘﻨﺎ ﺍﻟﻈﻠﻤﺔ ﺗﺘﻬﺎﻭﻯ
ﻭﺗﻄﻠﻊ ﺷﻤﺲ ﻣﻘﻬﻮﺭﺓ
ﺑﺨﻂ ﺍﻟﺸﻌﺐ ﻣﻤﻬﻮﺭﺓ
ﺗﺨﻠﻲ ﺍﻟﺪﻧﻴﺎ ﻣﺒﻬﻮﺭﺓ
ﺇﺭﺍﺩﺓ ﻭﺣﺪﺓ ﺷﻌﺒﻴﺔ
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[1] Più letteralmente, “una nazione che controlli i suoi affari, la cui brace (o carbone) arda scintillante”.
[2] Kulliyya, lett. “facoltà universitaria”, “istituto di insegnamento superiore”, “collegio”.
[3] Hasra, lett. “dolore”, “afflizione”, “rammarico”, “sospiro”.
[4] Si noti qui un probabile riferimento alla questione palestinese. La frase in arabo tradotta con “chi ha perso il controllo del proprio destino” letteralmente recita: “coloro che hanno le mani attorcigliate”, nel senso di “legate” e dunque impossibilitate ad agire liberamente sul proprio destino.
[5] Si noti l’espressione “haddādī maddādī”, ossia una nazione illimitata, con orizzonti infiniti.
[6] Dajja, lett. “rumore”, “strepito”, “chiasso”, “baccano”. Si riferisce probabilmente alle voci del dittatore o generale di turno nel suo rivolgersi alla nazione.
[7] Naqra’, lett. leggere.