André Miquel aiuta a comprendere il rapporto dei capolavori della letteratura araba con le circostanze storiche, con la religione, con le domande radicali che inquietano gli uomini di ogni tempo
Ultimo aggiornamento: 29/12/2022 17:11:09
Lei ha consacrato numerose opere alla civiltà islamica classica e alla sua letteratura. Quali sono a Suo avviso le sue caratteristiche portanti e quali gli aspetti più interessanti per noi?
È una domanda complessa e immensa. La civiltà alla quale mi sono interessato è la civiltà o piuttosto la letteratura araba tra il settimo secolo e la fine del decimo. Perché? Perché poco a poco sono giunto a convincermi che esisteva la possibilità di un dialogo, il più semplice possibile, tra un uomo d’oggi e un uomo del nono/decimo secolo. Questa letteratura infatti si poneva esattamente le stesse domande che mi faccio io: «Perché esistiamo?», «Perché viviamo?», «Perché amiamo?», «L’Aldilà è un sogno?», etc. E come rispondeva? A suo modo, alla luce della rivelazione coranica, ma anche alla luce dell’inscrizione progressiva nella storia, perché tutti gli autori che ho conosciuto non facevano letteratura religiosa, scrivevano letteratura profana. Il più bel momento di questa civiltà è per me il califfato di Baghdad nel suo apice, tra il 750 e il 1000 della nostra era, perché in quel periodo ci si incontra con una civiltà completa: l’essere, la scienza, la filosofia… tutta un’apertura sul mondo che sa raccogliere le eredità straniere, che vi aggiunge la propria e le fa dialogare. L’eredità straniera – è banale ricordarlo – è costituita da India, Persia e Grecia, che erano già ben presenti prima del califfato di Baghdad, ma di cui i califfi abbasidi, e soprattutto al-Ma’mûn, hanno considerevolmente aumentato la conoscenza.
Parlerebbe allora, riprendendo il titolo di un’opera di Joel Kramer, di un Umanesimo nel Rinascimento dell’Islam?
Preferirei dire che il Rinascimento sarebbe potuto accadere sulle rive del Tigri nel nono secolo, in particolare attorno al califfo al-Ma’mûn che per me è il più grande degli abbasidi. Lei parla di un umanesimo, e perché no? Sì, questi letterati, poeti, sapienti non dimenticavano mai che lavoravano per degli uomini nel loro secolo. Detto questo, bisogna aggiungere una domanda ulteriore: questa civiltà può essere presa a modello? La risposta è sì e no, o sì con delle sfumature. Faccio un solo esempio: in questo Medioevo abbiamo a che fare con una civiltà che si definisce attraverso l’Islam, ma che protegge sudditi ebrei e cristiani. Lo fa attraverso un’imposta. Qual è la lettera? È che questi ebrei e questi cristiani beneficiano di una tolleranza, ma la tolleranza oggi non ci interessa. La tolleranza è un atto concesso dal potere, mentre oggi abbiamo bisogno d’altro: di fratellanza, di concordia. Perciò direi “no” alla lettera di questa civiltà, ma “sì” al suo spirito, perché nella sua storia, e tenuto conto dei limiti del periodo, questa civiltà è stata un umanesimo.
Oasis si riferisce spesso al processo di meticciato di civiltà e di culture per descrivere la nostra epoca. Meticciato fisico se ne ebbe senza alcun dubbio nella Baghdad abbaside tra diversi popoli: arabi, aramei, ebrei, persiani, turchi, perfino schiavi originari dell’Africa nera e dell’impero bizantino. Ma si può parlare anche di un vero meticciato di civiltà? E se sì, quale principio permise la sintesi?
Le dirò subito che diffido di questa parola. Parlo del mio Paese, la Francia. Poco m’importa che oggi in Francia il colore della pelle dei miei concittadini sia bianco o nero o giallo. Questo non mi riguarda. Ciò che m’importa è la condivisione e il rispetto reciproco. Penso che ognuno di noi e anche ognuna delle nostre civiltà abbia un territorio riservato, lo chiamerei un “giardino segreto” che non va toccato. Vi si deve accedere dietro invito dell’altro e occorre cercare di comprenderlo, ma senza obbligo di condividerlo. Sono francese, allevato nella tradizione della scuola repubblicana e sono profondamente laico. Non dico laico tanto per dire, mi rifaccio al significato autentico del termine; in altre parole, credo che una società giusta si fondi sull’accordo di quanti la compongono. La religione è un’altra cosa. Questo accordo, che si può del resto vivere anche per una ragione diversa, suprema per il credente, resta a mio avviso il principio della pace sociale.
Venendo alla letteratura in modo specifico, sono sempre stato colpito dal fatto, che Lei ha appena ricordato, che la maggior parte della letteratura araba, soprattutto nei primi secoli dopo l’Islam, sia profana. La grande letteratura religiosa arriva dopo, è in certo modo “seconda”: ad esempio tutto il repertorio della poesia bacchica, argomento evidentemente non di stretta osservanza religiosa e che risale all’Arabia preislamica, è ripreso successivamente dalla letteratura mistica come simbolo dell’estasi in Dio. Non ho mai trovato una spiegazione convincente a questo fenomeno. Perché, dopo la nascita di un movimento religioso così potente, si è finito per adottare un linguaggio estetico profano?
Penso che la risposta sia d’ordine storico. In fondo, fino alla metà dell’ottavo secolo per la fede e per gli arabi non si pongono problemi. L’impero dell’Islam è diretto a Damasco da una dinastia araba e si estende dalla Spagna fino all’Asia centrale, alle soglie dell’India. Tutto va bene. A partire dalla metà dell’ottavo secolo interviene un fenomeno nuovo: un altro popolo aspira non a prendere in carico l’Islam, perché la rivelazione è fatta una volta per tutte, ma a praticare questa religione nel secolo e nella storia. È la prima volta che le lettere arabe si pongono il problema della condivisione. E quando dico le lettere, dico la tradizione, il sapere e forse anche la religione. A partire dalla fondazione del califfato di Baghdad a metà dell’ottavo secolo, il problema che si pone al popolo arabo è di restare arabo nella condivisione. Questo spiega perché la prosa araba profana nascente sia stata creata in larga misura da persiani che conoscevano l’arabo quanto gli arabi, se non meglio, e che crearono in effetti quest’espressione profana sulla quale Lei m’interroga.
Cerco di mettermi al loro posto: l’Islam è stabilito, non teme nulla, è la religione ufficiale. L’essenziale è sapere ciò che la civiltà musulmana diventerà nel secolo, cioè nella vita di tutti i giorni, nelle scienze, nel sapere, nelle relazioni commerciali, perfino nell’architettura del potere politico, perché non va dimenticato che il primo capolavoro della prosa araba classica, il Libro di Kalîla e Dimna, sotto l’aspetto di una raccolta di favole, è in realtà un libro politico che pone il problema del potere e dei sudditi, peraltro senza riferimento esplicito alla religione. Beninteso, il potere viene da Dio, ma tocca agli uomini regolare il problema per arrivare a un potere giusto da un lato e a sudditi ubbidienti dall’altro, le due cose essendo inseparabili. In breve, in quel momento vi fu un’occasione per una civiltà d’espressione araba. Essa visse l’urgenza di affermarsi come civiltà tanto araba quanto musulmana, contemporaneamente araba e musulmana. È per questo che – credo – la fioritura della prosa araba risale a quell’epoca.
E la poesia?
La poesia è un’altra storia, perché esisteva prima dell’Islam e non aveva bisogno di trovare dei punti di riferimento. S’è accomodata ai gusti dell’epoca, ne ha approfittato per sviluppare nuovi modi d’espressione, ma il suo principio non era in gioco.
Che cos’è letteratura all’epoca?
Se siamo d’accordo sull’affermazione che ciò che si chiama letteratura è un testo sul quale da un lato s’esercita un lavoro di scrittura e nel quale dall’altro si manifesta l’impegno di una persona, allora per gli arabi del Medioevo la letteratura è la poesia. Perché? Perché non si possono fare esercizi stilistici sulla prosa, visto che il modello coranico è posto come inimitabile e sarebbe blasfemo cercare di copiarlo. Perciò quando si scrive in prosa a quell’epoca, si può certamente dire “io”, ma in qualità di testimone: “io ho da dire questo”, “io ho riflettuto su quest’altro”, “io sono venuto a sapere che…”. Se si vuole passare dall’ “io” al “me” in tutta la sua libertà, e pure in tutti i suoi eccessi, si entra nell’ambito della poesia. E lì si è liberi, la tradizione è chiara: il poeta è un ispirato, un pazzo, e il pazzo va esente da ogni critica. Questo fatto spiega anche perché all’epoca sia stato messo un tale accento sulla prosa, per la prima volta nella letteratura araba.
Quali sono gli autori che dicono in modo più forte questo “me”, in poesia e in prosa?
I più grandi sono certamente Abû Nuwâs, al-Mutanabbî, Abû l-‘Alâ’ al-Ma‘arrî, ma ho un debole pronunciato per Abû l-‘Atâhiyya, prima di tutto perché è un uomo che scrive semplicemente, e non è cosa da poco. Visse secondo una visione molto musulmana (era un musulmano convinto), ma la sua fede è così pura che possiamo condividerla. Una volta avevo tradotto un suo verso: «E la morte è questo fuoco in tutti noi acceso, che ogni giorno nuovo un po’ più forte ravviva». Un giorno l’ho citato nella mia traduzione ai miei amici e gli ho chiesto: «Sapete chi l’ha scritto?» «Gérard de Nerval? Baudelaire?» «No, Abû l-‘Atâhiyya!» Questi uomini, in effetti, erano liberi di parlare. Non so più chi tra questi grandi poeti ha detto : «In poesia mi sono permesso ogni cosa, salvo il peccato di non credere». Questo illumina perfettamente le cose. L’ambito della letteratura, l’ambito della libertà è la poesia.
Per associazione mi viene in mente un altro esempio: un uomo che ho molto amato, Usâma Ibn Munqidh, il cavaliere siriano dell’epoca delle Crociate, ha voglia di raccontare la sua vita. Era la prima volta. Non mi si venga a citare come termine di paragone l’autobiografia di Ibn Khaldûn, che è una semplice lista dei corsi che ha seguito, senza nessun accenno alla vita personale. Usâma, invece, vuol raccontare quello che ha fatto nella vita e l’infanzia a Shayzar, nel vecchio castello sull’Oronte, ma gli serve un espediente per far passare la cosa. Non può dire: «Ho voglia di parlare di me». Allora domanda perdono, quasi, e dà al suo libro il titolo di L’istruzione attraverso l’esempio. Il tema è semplicissimo: Dio è il signore del destino umano. Si può morire giovani, si può morire come me – scrive Usâma – nel letto dopo aver conosciuto tutti i campi di battaglia, ma a partire dal mio esempio si può concludere che la vita è nelle mani di Dio e che il destino è imprevedibile. La sua autobiografia è dunque il caso esemplare che illustra quanto dicevo: in prosa si scrive per dire cose serie; e quando si vuole folleggiare, prendersi un po’ di libertà, si fanno dei versi. Le cose sono bene in ordine e tutto è a norma.
Sempre continuando sul canone estetico, nella poesia panegirica che costituisce la parte più considerevole della produzione classica in versi si resta colpiti dalla quantità d’elementi che risalgono alla concezione della regalità propria dell’Oriente antico. Si può cogliere in questo un inizio di differenziazione tra linguaggio politico ed espressione religiosa?
Sì, torniamo a quello che si diceva un attimo fa. Non bisogna mai dimenticarsi che per gli arabi dell’epoca classica, fino al diciannovesimo secolo, la storia è stata un confronto perpetuo (o un dialogo, a seconda dei casi) con lo straniero. Prima gli iranici, poi i turchi, i mongoli, le Crociate, la potenza marittima e commerciale europea nel Mediterraneo e per finire l’età coloniale. E la questione del potere viene dalla Persia, sono i persiani a importarla. Ibn al-Muqaffa‘, l’autore delle favole di Kalîla e Dimna che abbiamo citato poco fa, è un persiano convertito e arabizzato. C’è una tradizione che risale agli achemenidi e di cui diverse usanze passeranno nel califfato di Baghdad. All’epoca vi è incontestabilmente una ricerca attorno ai fondamenti del potere politico e il problema è sapere come articolarlo rispetto al potere religioso. Non è un caso se la scuola teologica favorita di al-Ma’mûn, la Mu‘tazila, affermava che Dio ha donato l’evidenza della fede, ma al tempo stesso e in modo esclusivo ha dato all’uomo l’uso della ragione. Di conseguenza è un dovere per l’uomo usare la ragione nell’illustrazione della fede. A che livello? A livello dell’individuo, certamente, ma anche a livello del potere politico e più largamente ancora della società nel suo insieme.
E tuttavia a un certo momento questa belle époque, per così dire, giunge a conclusione, non di colpo, ma attraverso un progressivo declino. Si sono sempre ricercate le ragioni di questa decadenza. Per esempio gli arabi insistono sull’elemento delle conquiste straniere. Lei che cosa ne pensa?
Torno a quello che dicevo prima: mi metto dal punto di vista degli arabi. La pressione esercitata dagli iranici, che a partire dall’anno 1000 saranno i signori del califfato abbaside, favorì il ripiegamento su di sé. Ci fu la reazione politica dopo la morte di al-Ma’mûn con al-Mutawakkil, la reazione religiosa attraverso la cosiddetta “chiusura delle porte del ragionamento personale” e vi fu anche la preoccupazione di raccogliere il tesoro. Ma quando si raccoglie un tesoro, non si crea. Anche se non mi sono applicato a studiare questo problema, mi sembra che ci siano delle prove in questo senso. Poco a poco si diffonde il timore di veder sfuggire il tesoro: non quello della religione, insisto, perché questa era stata presa in carico dai turchi, dagli indonesiani, dagli africani, ma il tesoro d’espressione araba. Quando un geografo alla fine del decimo secolo, alla notizia dell’invasione lanciata da Costantinopoli scrive: «Non so più dove andiamo, forse siamo perduti»; quando lo storico al-Mas‘ûdî, qualche decennio prima, nomina i popoli del Caucaso e commenta: «Per fortuna che Dio nella sua grande saggezza li ha trattenuti là, nelle loro piccole valli, sennò ….», questi autori esprimono chiaramente una preoccupazione. Pensi nelle Mille e una notte alla storia della giovane schiava Tawaddud, convocata al cospetto del Califfo per tener testa a tutti i sapienti riuniti. Che cosa fa Tawaddud, in alcune decine di pagine? Raccoglie il sapere. E vorrà pur dire qualcosa che si sia conservato ciò che all’inizio non era neppure considerato come letteratura, voglio dire proprio le Mille e una notte. C’è ancora l’esempio di Suyûtî, che muore a cinquanta e qualche anno nel 1505, nel momento in cui gli ottomani preparano la conquista dell’Egitto, ma che allinea più di 300 titoli d’opere da lui composte: si era proposto di riscrivere ciò che era stato scritto prima di lui. E naturalmente viene da pensare anche alla visione della storia in Ibn Khaldûn, benché lo storico maghrebino abbia la prudenza di affermare che l’Islam non è come le altre civiltà e non morirà. Insomma, in questo Alto Medioevo del califfato di Baghdad, a un certo punto alcuni si sono detti: «Stiamo andando troppo lontano e rischiamo di perderci se non ci aggrappiamo a quello che è sicuro», il Corano, l’esegesi … Mi sembra una spiegazione possibile.
E una spiegazione che offre un parallelo interessante con la nostra epoca, in cui ci si applica a raccogliere, con i nuovi strumenti, tutto il sapere …
Sì, è possibile. Ma credo che, a qualsiasi civiltà s’appartenga, occorre essere fiduciosi nella propria per poter accettare l’altro. E se si è destinati a vivere insieme, bisogna non lasciar cadere nulla di sé, pur ammettendo l’atteggiamento dell’altro.
Anche in religione?
Soprattutto in fatto di religione. Ad esempio, un musulmano potrebbe dirmi: «Voi cristiani insultate la maestà di Dio facendone tre persone» e penso che l’Islam abbia diritto a dire a me cristiano: «Non dimenticare mai che prima di tutto, come principio, Dio è uno». Ma allo stesso tempo deve riconoscere che io cerco d’immaginare questa unità secondo forme che non sono umane. Potrei dire che è in questa stravaganza rispetto alla ragione che fondo il mistero di Dio, il mistero del Dio Uno. Credo che ci si possa intendere soprattutto con ragionamenti di questo tipo. A proposito, perché nessuno ha avuto l’idea di far pregare contemporaneamente musulmani e cristiani, facendo recitare agli uni la prima sura del Corano e agli altri il Padre Nostro? Nel Padre Nostro non c’è nulla che insulti la fede musulmana. Perché i musulmani non accettano che in una riunione comune si reciti il Padre Nostro e viceversa? Anche la Fâtiha non ha nulla che possa scioccarmi.
Quest’ultima osservazione conferma ciò che Merleau-Ponty diceva di Lei: «C’è in Lei un teologo che s’ignora». Non pochi europei, come Charles de Foucauld e Louis Massignon, sono ritornati alla fede cristiana attraverso il contatto con l’Islam. È stata anche la Sua esperienza personale?
Forse all’inizio, perché sono figlio di un maestro di scuola laico e non ero portato a interessarmi alla religione. La religione è venuta dopo, assolutamente per caso, durante la guerra, quando ero ospite di una sorella di mia madre che era molto devota e mi portava al mese di Maria. Allora ho desiderato fare la Prima Comunione. Poi ho abbandonato e ho ritrovato la fede al momento del matrimonio. Ma l’iscrizione nella fede risale alla mia incarcerazione in Egitto, quando ho creduto di morire. Penso di essere stato veramente a un passo dalla fine. Allora sono stato rassicurato da una voce che non ho sentito fisicamente, ma che mi diceva interiormente: «Non preoccuparti, ci sono passato anch’io…». E difatti sono tornato indietro! Prima di quest’esperienza ho conosciuto un periodo che chiamerei “deista”, ateo non lo sono stato mai. Il mio primo incontro con l’Islam risale certamente a quel periodo: ero a Montpellier, preparavo il concorso per l’école normale e un po’ per caso avevo comperato una traduzione del Corano, quella vecchia di Savary. Sono stato conquistato dalle ultime sure, come un letterato di fronte a un bellissimo testo letterario e forse qualcosa di più, di fronte all’affermazione sontuosa di una fede e di una relazione tra l’uomo e Dio. Ma non ho mai avvertito il bisogno di andare oltre. In altre parole, ho conservato con l’Islam una relazione d’amicizia, quasi di fratellanza nella fede – la parola non mi disturba – ma sono altrettanto convinto che la miglior religione è quella che si trova nella culla e che qualsiasi religione permette di fare tutte le esperienze possibili. Si può essere mistico in India, nell’Islam, nel mondo cristiano. Alla fine il punto d’arrivo è lo stesso: l’estasi nel divino. Le vie sono diverse, ma il termine è identico. E dunque, per rispondere alla Sua domanda: no, sono stato un ammiratore dell’Islam e della sua espressione, ma senza aver mai l’idea di diventare un adepto.
Durante la prigionia in Egitto, sotto Nasser, il grande domenicano Georges Anawati Le ha manifestato la Sua vicinanza, se non erro.
L’ho visto una volta sola, al processo, ma sono dei ricordi che non si dimenticano.
Dopo essere stato liberato, ha occupato posti di responsabilità nella ricerca. Qual è la Sua impressione sullo stato presente degli studi arabi e degli studi nel mondo arabo?
Per l’altra riva del mare mi mancano i punti di riferimento e mi limiterei a dire semplicemente una cosa a cui ho sempre tenuto: mi piacerebbe molto che nelle università del mondo arabo-musulmano si sviluppassero un po’ di più gli studi relativi alla storia dell’Europa e alla storia dell’Europa cristiana. Per quanto riguarda la Francia, da quanto sento dire, non si può certo affermare che la situazione attuale sia florida. No. Non so se si debba parlare di disinteresse, credo piuttosto che certe discipline pesino troppo e lascino poco spazio ad altre. C’è anche una visione errata del progresso scientifico. Le faccio un esempio: nel 1968 sono stato nominato docente di arabo a Vincennes, la nuova università Paris 8 che doveva essere un’immagine dell’università del futuro. Ho avanzato l’idea di non creare sezioni di lingua e letteratura araba, ma piuttosto cattedre di lingua, letteratura e storia all’interno di unità d’insegnamento e di ricerca fondate su un programma comune. Ad esempio, se si fa un’unità di storia del Medioevo, serve uno storico del mondo arabo; lo stesso vale per la linguistica o la letteratura comparata. Questa proposta non ha avuto seguito e si è continuato a fare dipartimenti di studi arabi, arabi e islamici, arabi e semitici… In questo modo si sono conservate delle specie di riserve, ambiti di difficile accesso perché considerati fuori delle discipline correnti.
E dato che del mondo arabo bisognava pur parlare, si è lasciata la parola ai media, anche se non avevano tutta la preparazione necessaria, forse. No?
Forse no! E Le faccio un esempio: quando i giornalisti della Rai mi hanno chiamato a Roma intorno al 1969 per fare una serie di puntate sull’Islam, che dovevano poi essere riprese in francese, sono andato a trovare i colleghi italiani. Conservo un ricordo meraviglioso di Pinelli, di Quilici. Ah, che gente! Uno dei miei colleghi italiani gli aveva preparato un’esposizione classica sull’Islam, dalle origini ai giorni nostri. Ho detto loro: «No, bisogna fare una rassegna tematica». Sono tornati con migliaia di chilometri di pellicole: i nomadi del mare nelle Filippine! Le moschee sacre dell’India, dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Iraq… fantastico! Sono stato un po’ sommerso: «Bisogna mettere un po’ d’ordine. C’è un libretto che si chiama l’Islam et sa civilisation, lo ha scritto un tipo che si chiama André Miquel. Torno tra un mese e vedrò se l’avrete letto». I giornalisti? Non chiedono altro, credo, che essere formati e rimessi sulla buona strada quando serve.
Tra i temi più interessanti della poesia araba Lei ha citato l’amore e la dimensione sapienziale. Che altro?
L’amore sì, certamente, poi l’angoscia esistenziale, quella della vita e della morte. Nei poeti che ho amato quest’angoscia è permanente, anche quando si cerca di fuggirla nel piacere. Ma alla fin fine l’argomento che mi ha occupato di più è il poeta pazzo d’amore, Majnûn. Questi poeti dell’Arabia del deserto, che sono contemporanei della rivelazione coranica, hanno trovato un tema destinato a un’immensa fortuna, perché prima di tutto l’amore impossibile è il solo che sia perfetto; e in secondo luogo, l’amore perfetto è impossibile, da cui le escrescenze mistiche successive sul fronte Iran, Turchia… Ma per tornare a Majnûn, in una poesia evoca la sopravvivenza dell’anima dopo la morte, quando aleggerà sopra la tomba come una realtà invisibile: «Ma se dopo la morte le nostre anime si ritrovassero? / Si alzasse pure la colonna della terra / a nascondere le nostre tombe l’una all’altra, subito. / Liberata dalle ossa consunte, la mia anima fatta uccello / a correre verso la tua voce non penerebbe. Sì, la mia anima, o Layla, farebbe festa alla tua / e io direi: “Occhi miei, siate obbedienti! / Piangete, piangete senza fine, siate lacrime o sangue!”»[1]. È di una modernità, di un’eternità che attraversa la storia.
Quali sono le Sue preferenze letterarie?
Amo i libri che s’ingegnano a scavare nelle anime. La mia grande ammirazione va alla mia letteratura classica: sapevano dire le cose. Ve ne fornisco un solo esempio, il mio caro La Fontaine. Nella favola La fille si parla di una ragazza che fa la preziosa, bellissima, molto colta e circondata da un mucchio di pretendenti. Ma lei li rifiuta perché uno non è abbastanza bello, l’altro non è abbastanza giovane e un po’ alla volta diventano più rari. È allora che si trovano questi tre versi di un’umanità straordinaria: «Madonna schifiltosa, che allo specchio più tardi si consiglia, cangia parere e – Piglia – dice, un marito. Piglialo sussurra in un orecchio un certo desiderio, che parla anche alle donne schifiltose»[2]. È sconvolgente, una sessualità detta in questi termini. Prenda ancora questi versi nella Psyché di Molière, che in realtà sono di Corneille, venuto in soccorso di Molière. L’amore rapisce Psiche consenziente, ma poco dopo Psiche mette su un po’ di muso. L’amore, generoso, rimpatria tutta la famiglia e quel che doveva succedere succede: vede meno Psiche e le fa una scenata. Psiche risponde: «Delle tenerezze di sangue si può essere gelosi?» e l’Amore le risponde: «Lo sono, mia Psiche, con tutta la mia natura. I raggi del sole vi baciano troppo spesso e i vostri capelli troppo soffrono le carezze del vento: basta che li sfiori, e rimormoro. Perfino l’aria che respirate, con troppo piacere passa attraverso la vostra bocca. La vostra veste troppo vi si accosta. E appena sospirate, non so che mi spaventa e teme che tra i vostri sospiri se ne insinuino altri»[3]. Sa, l’erotismo di oggi non tiene di fronte a questo. È una sessualità straordinaria e detta con un tatto, una misura. La misura dei classici.
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[1] André Miquel, Percy Kemp, Majnun et Layla : l’amour fou, Sindbad, Paris 1984, 70.
[2] Jean de la Fontaine, Favole, Einaudi, Torino 1958, libro VII, 262.
[3] Molière, Œuvres complètes, Éditions Gallimard, Paris 1976, Vol. I, Psiché, act III, scène III, 71.