Gli ulema medievali hanno pensato la libertà religiosa all'interno di un paradigma egemonico. Oggi cercano spesso di riproporre questo paradigma nel diritto positivo degli Stati

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Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:24:33

Esiste una forte tensione nel campo islamico contemporaneo sul modo di considerare il diritto musulmano medievale, la sua interazione con il diritto positivo e la ricezione dei trattati internazionali relativi ai diritti dell’uomo. Dopo che buona parte della giurisprudenza islamica, soprattutto in ambito penale, è diventata obsoleta nel corso del tempo, a essere in gioco oggi è la riattivazione della sua portata effettiva nel diritto positivo dei Paesi islamici.

 

All’inizio di ottobre del 2010 si teneva la sessione inaugurale del forum culturale del Consiglio superiore degli affari islamici d’Egitto. In quella sede Muhammad ‘Abd al-Ghanī Shāma[1], consigliere per la cultura del ministro degli Affari religiosi, esprimeva un parere consultivo, una fatwa, secondo cui la religione è una scelta personale, libera, e lo Stato deve garantire l’esercizio di questa libertà astenendosi da qualsiasi coercizione nei confronti delle persone. Shāma affermava inoltre che il parere giuridico islamico secondo il quale l’apostata andrebbe messo a morte non ha alcun fondamento coranico, facendo leva sul passo seguente: «Quanto a coloro che credettero, poi rifiutaron la fede, poi credettero, poi rifiutaron la fede, poi crebbero in infedeltà ancora, Iddio non potrà più perdonarli né guidarli per una retta Via» (4,137)[2].

 

Le sue dichiarazioni non tardarono a suscitare una polemica nei media e nell’opinione pubblica del Paese. Il ministro degli Affari religiosi Mahmūd Hamdī Zaqzūq, assente alla riunione, dichiarava ai media nazionali[3] che il parere personale del suo consigliere non rifletteva la posizione del ministero. Non era la prima volta che il ministro rimetteva in riga il consigliere, le cui posizioni su alcune questioni relative alla libertà di culto avevano già suscitato aspre critiche, in particolare a motivo del suo sostegno[4] ad Amina Wadud, musulmana canadese e prima donna dell’epoca contemporanea ad aver guidato una preghiera collettiva mista. Dal canto loro, diversi importanti leader religiosi egiziani si sono affrettati a ricordare come i testi dell’Islam siano chiarissimi sulla necessità di mettere a morte l’apostata che, con il suo atto, attenta alla purezza della società musulmana.

 

Questa polemica non è un fatto aneddotico; solo in Egitto infatti, negli ultimi quindici anni, si sono alternate dichiarazioni contraddittorie sul rispetto o sulla restrizione della libertà religiosa, tra mufti dello Stato, mufti della moschea-università dell’Azhar, ministero degli Affari religiosi, Consiglio della fatwa egiziano e leader religiosi delle diverse tendenze dell’Islam[5]. Secondo il Consiglio egiziano della fatwa, «la problematica della pena di morte prevista per l’apostata non trova applicazione nella realtà della vita pratica. Il fatto che questa punizione sia ancora presente nelle fonti della legislazione musulmana non significa che essa sia una sanzione legale che pregiudica la libertà di pensiero e di credo. Anzi, tale pena è subordinata al diritto positivo»[6].

 

Il dibattito peraltro è ricorrente nel mondo musulmano, come dimostra l’ultima controversia relativa al parere emesso nel 2012 dal Consiglio superiore degli ulema marocchini. Rispondendo a una domanda del ministero degli Affari religiosi in merito al rispetto dei diritti dell’uomo, il Consiglio aveva confermato la necessità di applicare le disposizioni del diritto islamico classico relative alla pena di morte per l’apostata. La pressione di una parte della società civile, dei militanti per i diritti dell’uomo e certamente delle stesse autorità marocchine hanno avuto la meglio e il Consiglio ha pubblicato nel febbraio 2017 un parere correttivo all’interno del documento Il sentiero degli ulema[7], in cui restringe la nozione di apostasia alla fattispecie dell’individuo che, al di là della propria scelta personale, tenti di destabilizzare la società cercando di compromettere la fede altrui e l’integrità del tessuto sociale. Muhammad al-Fizāzī, leader salafita marocchino, si è affrettato a denunciare questo parere correttivo, affermando che il versetto coranico che recita «non vi sia costrizione nella fede» (2,256) non contrasta con la necessità di mettere a morte l’apostata. Una panoramica dei dibattiti che, su questo tema, percorrono i Paesi islamici esulerebbe dai limiti di questo articolo. Possiamo però dire che tutti riflettono una forte tensione, nel campo islamico contemporaneo, circa il modo di considerare il diritto musulmano medievale (fiqh), la sua interazione con il diritto positivo e la ricezione dei testi internazionali relativi ai diritti dell’uomo. Se gli ulema hanno storicamente interpretato la nozione di libertà religiosa a partire dai testi della tradizione musulmana in una prospettiva di egemonia religiosa, oggi i leader religiosi musulmani cercano di ridefinire un campo di restrizione delle libertà individuali, nel tentativo di perpetuare questa logica di egemonia nel diritto positivo dei Paesi musulmani.

 

Interpretare i testi in un contesto egemonico

 

La questione della libertà di coscienza, che comprende la libertà religiosa, può essere affrontata in ambito islamico e per quanto attiene al periodo medievale secondo diverse prospettive: il diritto, l’esegesi, la filosofia, la storia della civiltà musulmana e i metodi di governo, o siyāsa shar‘iyya. L’incrocio di questi approcci consente di comprendere come l’Islam sia progressivamente passato dall’essere una comunità di fedeli riuniti attorno al Profeta, in un contesto tribale con i suoi codici specifici, a una religione costituita i cui fondamenti dottrinali sono stati elaborati in un contesto imperiale. Questa evoluzione storica ha avuto un impatto determinante sul modo in cui gli ulema hanno pensato la questione dell’unità della “comunità” e considerato l’alterità religiosa, nel contesto di quello che definisco “paradigma egemonico”[8].

 

Con questa espressione intendo descrivere una visione del mondo, costruita dai sapienti dell’Islam in epoca medievale, secondo la quale il dominio di Dio sulla creazione deve trasporsi nel dominio dei musulmani sul mondo. La questione della libertà di coscienza e della sua restrizione va considerata a partire da questo prisma, nella misura in cui la visione del rapporto con l’altro come un rapporto di dominazione si traduce, nel diritto islamico classico, nella definizione dello status del non-musulmano – “protetto”, dhimmī o belligerante – e delle modalità della sua sottomissione al musulmano. Tuttavia affermare di primo acchito che l’Islam, o qualsiasi altro monoteismo, nel suo contenuto normativo e nei suoi aspetti di civiltà, rispetti la libertà di coscienza assoluta nel senso in cui la intende la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è un anacronismo o un’estrapolazione astorica.

 

Durante tutta la durata della fase profetica, Muhammad si è conformato perlopiù alle modalità di regolamentazione delle relazioni inter-tribali preesistenti all’avvento dell’Islam. Il testo coranico ne specifica alcuni aspetti, in particolare sul piano economico, penale o nella gestione dei conflitti e delle guerre. Diversi passaggi del Corano insistono sulla durezza del castigo, nell’aldilà, per i miscredenti, come a voler meglio affermare l’impossibilità di costringere alla fede con la forza, ciò che rifletteva la realtà della vita tribale dell’Arabia del VII secolo, in cui l’individuo libero non poteva essere costretto al di fuori delle alleanze contratte dal suo clan[9]. Da questo punto di vista, il versetto coranico che recita «non vi sia costrizione nella fede» (2,256) è particolarmente esplicito. Ciò nonostante le norme principali del diritto musulmano che disciplinano la libertà di coscienza sono state elaborate in un periodo che va dall’inizio dell’impero omayyade (metà del VII secolo) al X secolo, secondo una logica di preservazione dell’unità politica delle società sotto la dominazione musulmana. È in questo lasso di tempo che si formarono le quattro principali scuole giuridiche e le discipline relative ai fondamenti del diritto e ai canoni teorici e pratici. In questo non vi è nulla di specificamente islamico; l’area geografica della cristianità viveva infatti una situazione simile in un contesto generale di assoggettamento delle popolazioni alla religione del principe.

 

Per quanto riguarda l’elaborazione delle norme che regolavano la libertà religiosa in senso stretto, il Corano e la tradizione profetica presentano un supporto sufficientemente polisemico da permettere un ampio margine interpretativo. L’imam al-Qurtubī[10], teologo e giurista musulmano di origini andaluse vissuto nel XIII secolo e autore di una delle più celebri esegesi normative del Corano, ne offre una panoramica abbastanza esaustiva presentando sei diverse interpretazioni, talvolta chiaramente antagoniste, del versetto sopra citato sulla libertà religiosa.

 

Gli esperti di religione hanno assunto sei posizioni divergenti in merito al significato di questo versetto:

 

  1. Alcuni ritengono che sia abrogato (āya mansūkha), perché il Profeta ha costretto gli arabi ad adottare la religione musulmana e li ha combattuti accettando da loro soltanto l’Islam. È l’opinione di Sulaymān ibn Mūsā quando afferma che [questo versetto] è stato abrogato dal versetto: «O Profeta! Combatti i miscredenti e gli ipocriti» (9,73). […]
  2. Il versetto non è abrogato, ma è stato rivelato specificatamente in riferimento alle Genti del Libro, poiché esse non vanno costrette ad adottare l’Islam se pagano la jizya. Gli adoratori di idoli invece sono da costringere e per loro non vi è altra possibilità che la conversione all’Islam. Del resto è in riferimento a questi ultimi che è stato rivelato il versetto «O Profeta! Combatti i miscredenti e gli ipocriti». […] L’argomento a favore di questa opinione risiede in ciò che Zayd Ibn Aslam ha riportato da suo padre, che disse: «Ho sentito ‘Umar ibn al-Khattāb dire a un’anziana donna cristiana: “Convertiti [all’Islam] e sarai salva! Invero Dio ha mandato Muhammad con verità”. Essa gli rispose: “Sono solo una donna anziana e la mia morte si avvicina”. Disse ‘Umar: “Signore, ti prendo a testimone!” Poi recitò: “Non vi sia costrizione nella fede”».
  3. La terza opinione si fonda su ciò che Abū Dāwūd ha riportato da Ibn ‘Abbās quando afferma che il versetto è stato rivelato in riferimento agli ansār [medinesi convertiti all’Islam]. Alcune donne [degli ansār] erano rattristate per la morte dei loro bambini in tenera età al punto che fecero voto di crescere i loro figli nell’Ebraismo, se mai fossero sopravvissuti. Quando la tribù [ebraica] dei Banū Nadīr fu espulsa [da Medina], tra loro si trovavano molti figli di medinesi [musulmani]. Questi ultimi dissero: «Non lasceremo che i nostri figli se ne vadano». Dio allora rivelò: «Non vi sia costrizione nella fede: la retta via ben si distingue dall’errore» […].
  4. Disse as-Suddī: «Questo versetto è stato rivelato in riferimento a un uomo, tra i medinesi, di nome Abū al-Husayn, che aveva due figli. Alcuni commercianti arrivarono a Medina dallo Shām [la Siria, NdT] per vendere l’olio. Quando furono sul punto di lasciare Medina, i due figli di Abū al-Husayn andarono da loro e questi li invitarono a convertirsi al Cristianesimo. I due figli si convertirono e si aggregarono alla carovana verso lo Shām. Il padre allora andò a lamentarsi dal Profeta, sperando che quest’ultimo avrebbe mandato degli uomini per riportarli a casa. È allora che fu rivelato il versetto “non vi sia costrizione nella fede”, in un momento in cui i musulmani non avevano ricevuto l’ordine di combattere le Genti del Libro. Il profeta disse: “Che Dio li allontani, queste persone sono i primi miscredenti [tra i musulmani]”.» […]
  5. Altri sostengono che il senso del versetto è: «Non dire che le persone convertite [all’Islam] sotto il giogo della spada sono state costrette e forzate».
  6. Questo versetto è stato rivelato in riferimento ai prigionieri di guerra. Se si tratta di Genti del Libro e sono adulti, non bisogna costringerli a convertirsi. Ma se si tratta di mazdei o di adoratori di idoli, siano essi adulti o bambini, sono costretti a convertirsi all’Islam. Questo perché chi li ha catturati non potrà trarne alcun beneficio se rimangono idolatri. Non sai che le bestie che abbattono non possono essere consumate [dai musulmani] e che le loro donne sono proibite? Essi hanno per abitudine di mangiare le bestie morte, le realtà impure e molte altre cose. Sono ripugnanti per il loro padrone al punto che gli risulta difficile trarne profitto benché siano parte del suo patrimonio. Egli può perciò costringerli [a convertirsi all’Islam]»[11].

 

L’esposizione di al-Qurtubī illustra perfettamente la grande ampiezza interpretativa del Corano e della tradizione profetica riguardo alla libertà di scelta religiosa, per i musulmani come per i non-musulmani, e alle possibilità di limitarla. Queste sei interpretazioni si ritrovano tutte o in parte nelle esegesi coraniche fino ai giorni nostri, ciò che indica una continuità, tra gli ulema, nella visione del rapporto di dominazione che l’Islam intrattiene con il mondo e delle sue conseguenze pratiche nei canoni del diritto. Questo ha portato i dottori della legge a definire un’equazione tra, da una parte, il rispetto dovuto alle diverse fedi, soprattutto monoteiste, e la libertà di culto, e, dall’altra, la necessità di mantenere la religione musulmana in una posizione di dominio, imponendo una scala di restrizioni più o meno forti all’espressione delle identità religiose. Sullo sfondo dei dibattiti su questo tema, troviamo la questione della fedeltà al potere politico e della sottomissione del non-musulmano. Quest’ultimo possiede uno statuto di “protetto”, o dhimmī, che gli garantisce la tutela da parte dell’autorità musulmana, ma i testi delle diverse scuole giuridiche lasciano un margine di manovra abbastanza importante al capo politico nella restrizione delle libertà dei protetti.

 

Due paradigmi in tensione

 

Le disposizioni del diritto islamico riguardanti i non-musulmani sotto il dominio musulmano e lo statuto dell’apostata sono ben lungi dall’aver conosciuto un’applicazione rigorosa, per non dire effettiva, in tutto il Medioevo. L’Impero ottomano, nell’ambito delle riforme politiche ed economiche effettuate nel XIX secolo, ampliò i margini dell’organizzazione intra-comunitaria delle sue popolazioni non-musulmane con il sistema dei millet. Non ci troviamo però di fronte a uno Stato-nazione in cui la cittadinanza politica è slegata dall’appartenenza religiosa. Le grandi categorizzazioni territoriali del diritto musulmano classico e lo statuto di dhimmī sono ancora presenti.

 

L’abolizione del califfato, il 3 marzo 1924, e l’avvento degli Stati nazione sono stati accompagnati dallo sviluppo di un diritto positivo in terra islamica, la cui codificazione riprende il sistema dei codici in vigore nei Paesi occidentali. Non abbiamo la pretesa di illustrare la complessità delle riforme giuridiche attuate in terra islamica[12]. La questione del “riformismo” politico e religioso avviato nel XIX secolo in India, Medio Oriente e Maghreb, è stato oggetto di diversi lavori accademici. Un aspetto ci interessa particolarmente: la volontà delle grandi istituzioni religiose musulmane di introdurre progressivamente le norme del diritto musulmano classico nel diritto positivo degli Stati con l’obiettivo di giungere a un diritto unificato per i Paesi islamici.

 

Il lavoro iniziò nella prima metà del secolo scorso con i tentativi di codificazione (taqnīn) del fiqh [giurisprudenza islamica, NdT] sul modello dei codici secolari, mantenendo la disparità dei diritti tra le varie categorie della popolazione: uomini-donne, musulmani-dhimmī. È poi proseguito con la redazione di diverse carte dei diritti dell’uomo sulla falsariga della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, nelle quali però il principio e la portata della libertà di coscienza sono considerevolmente ridotti. Queste iniziative illustrano perfettamente un punto di grande tensione nell’Islam contemporaneo. Esso traduce, da una parte, la volontà di perpetuare un vecchio ordine fondato sul primato della religione e dei “diritti di Dio” e, de facto, una differenziazione dei diritti e una restrizione delle libertà fondamentali, e dall’altra la progressiva costituzione di un diritto positivo proveniente dalla modernità occidentale e dal primato delle libertà individuali.

 

Nel 1990, l’Organizzazione della conferenza islamica ha così adottato la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, che afferma esplicitamente il primato dei diritti di Dio e la condizione di “servitù” degli esseri umani rispetto a Dio. All’articolo 10 essa stipula che «l’Islam è la religione naturale dell’uomo. Non è consentito sottomettere gli uomini a qualsiasi forma di pressione o approfittare della povertà o dell’ignoranza per convertirli a un’altra religione o all’ateismo». La Carta araba dei diritti dell’uomo, varata nel 2004, propone una formulazione più edulcorata all’articolo 30, affermando che «tutti hanno diritto alla libertà di religione, di pensiero e di opinione», ma lascia un margine di restrizione arbitraria per il fatto che «i diritti alla libertà di religione, di pensiero e di opinione possono essere oggetto soltanto delle restrizioni previste dalla legge». Si potrebbero rilevare diversi altri punti in queste due carte che contravvengono chiaramente alle disposizioni delle convenzioni internazionali relative ai diritti dell’uomo. Allo stesso modo, nel 1978 un comitato di ulema dell’Azhar aveva presentato un progetto di Costituzione islamica universale, mentre nel 1996 la Lega araba ha completato un Codice penale unificato, approvato all’unanimità dai ministri della Giustizia dei Paesi membri[13].

 

Dopo che buona parte del diritto musulmano, soprattutto in ambito penale, è diventato obsoleto nel corso del tempo, a essere in gioco oggi è la riattivazione della sua portata effettiva nel diritto positivo dei Paesi islamici. A questo bisogna aggiungere, in alcuni Paesi islamici, il persistere di un diritto consuetudinario emerso dalla sharī‘a accanto al diritto secolare, ciò che consente al giudice di far prevalere il primo sul secondo soprattutto nell’ambito degli affari famigliari e privati.

 

La dinamica in favore della riattivazione della sharī‘a medievale è abbastanza complessa da cogliere perché si colloca all’intersezione tra una “visione del mondo”, promossa dalla massa dei leader religiosi musulmani, in cui predominano la sacralità e l’immutabilità dei testi rivelati, e l’azione politica, in cui la strumentalizzazione della religione svolge un ruolo importante nelle strategie di controllo delle popolazioni. Il risultato, nel corso del XX secolo, è stata la progressiva restrizione delle libertà nel campo islamico man mano che la dottrina wahhabita e l’idea di un Islam totalizzante, promosso dai movimenti islamisti, estendevano la loro influenza nei Paesi islamici, tanto nel campo politico quanto nelle istituzioni musulmane[14].

 

Le “Primavere arabe” e l’applicazione da parte dell’Isis delle disposizioni più estreme del diritto musulmano hanno creato agitazione nelle istituzioni e tra i leader religiosi, in particolare rispetto al modo in cui il vasto patrimonio giuridico medievale viene diffuso senza alcun filtro tra le masse musulmane. Gli episodi egiziano e marocchino citati sono esemplificativi di questa tensione e interrogano la capacità, se non addirittura la volontà, dei leader religiosi dell’Islam contemporaneo di pensare “l’islamicità” di una società al di là del prisma confessionale, e la cittadinanza al di là dell’appartenenza religiosa.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Note

[1] Muhammad Shāma è peraltro titolare di un dottorato in Religioni comparate, conseguito alla Facoltà di Lettere dell’Università di Berlino Ovest nel 1968. È balzato più di una volta alle cronache egiziane per le sue prese di posizione giudicate troppo aperte sulle questioni religiose.
[2] In questo versetto si discute il caso di un gruppo di persone che si sono allontanate per due volte dall’Islam. Se il Corano prescrivesse la pena di morte, questo caso di “apostasia reiterata” non potrebbe presentarsi (Ndt).
[3] ‘Ne pas tuer l’apostat’ provoque une crise entre Zaqzûq et Shâma, «al-Muhît», 19 ottobre 2010, http://www.moheet.com/news/newdetails/15505/0/0.html
[4] Wazīr al-awqāf al-misrī yu‘annif mustashār ajāza imāmat al-mar’a li-l-rijāl. Ittafaq ma‘a-hu ‘alā al-tarāju‘ ‘an fatwā-hu [Il ministro degli Affari religiosi rimprovera duramente un consigliere che ha autorizzato le donne a guidare la preghiera per gli uomini. Si è accordato con lui perché ritratti la sua fatwa], «al-‘Arabiyya», 3 aprile 2005, http://bit.ly/2g98Cqm
[5] A luglio 2007 le affermazioni del mufti d’Egitto ‘Alī Gum‘a sulla necessità di rispettare la libertà religiosa di ciascuno avevano suscitato una controversia in molti Paesi arabi. Cfr. Muftī Misr: haqq al-ridda makfūl wa-lā ‘iqāb illā idhā haddadat usus al-mujtama‘, [Il mufti d’Egitto: l’apostasia è un diritto garantito che non prevede alcuna punizione a meno che essa non metta a repentaglio i fondamenti della società], «al-‘Arabiyya», 27 luglio 2007, http://bit.ly/2grEbIQ
[6] Shubhat al-qawl bi-qatl al-murtadd [L’ambiguità della tesi che sostiene la pena di morte per l’apostata], disponibile sul sito ufficiale del Consiglio della fatwa egiziano http://bit.ly/2yVlunr
[7] ‘Ulamā’ al-Maghrib yatarāja‘ ‘an fatwā qatl al-murtadd [Gli ulema marocchini rivedono la fatwa sull’uccisione dell’apostata], «al-‘Arabī al-jadīd», 6 febbraio 2017, http://bit.ly/2y9xtPg. Il testo integrale della fatwa è stato diffuso il 7 febbraio 2017 dal sito Dinpress, http://dinpresse.com/blog/5249. La traduzione completa del testo è disponibile su http://bit.ly/2gs0G0i
[8] Omero Marongiu-Perria, Rouvrir les portes de l’Islam, Atlande, Neuilly-sur-Seine 2017.
[9] Per una visione dettagliata della società tribale all’epoca della rivelazione coranica si veda, tra gli altri, Jacqueline Chabbi, Le Seigneur des tribus. L’islam de Mahomet, CNRS éditions, Paris 2013.
[10] Abū ‘Abd Allāh Muhammad al-Qurtubī (1214-1273), teologo e giurista musulmano, nato a Cordova. La sua esegesi giuridica del Corano gode fino a oggi d’una notorietà incontestata.
[11] Al-Qurtubī, Al-Jāmi‘ li-ahkām al-Qur’ān, Dār al-fikr, Damasco s.d., vol. 2, pp. 255-257.
[12] Sulla questione specifica dell’evoluzione della sharī‘a in epoca moderna si rimanda il lettore ai lavori di Baudouin Dupret e Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh. Cfr., a titolo di esempio, Baudouin Dupret e Armando Salvatore, La Sharia moderne en quête de droit : raison transcendante, métanorme publique et système juridique, «Droit & Société» 39 (1998), pp. 293-316 ; e Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Rôle de la religion dans l’harmonisation du droit des pays arabes. Réflexions à propos du droit égyptien et des travaux de la Ligue Arabe, «Revue internationale de droit comparé» vol. 59 n° 2 (2007), pp. 259-283.
[13] Per una presentazione dettagliata del Codice penale unificato della Lega degli Stati arabi si vedano la tesi di dottorato di Hamdan Hanafi, La liberté de religion dans les États de droit musulman, discussa alla Facoltà di Diritto dell’Université Jean Monnet di Saint-Étienne, e Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Les sanctions dans l’islam : avec le texte et la traduction du code pénal arabe unifié de la ligue arabe, autoedizione 2016.
[14] Sulla questione si vedano, tra gli altri, Hamadi Redissi, Le Pacte de Nadjd, ou comment l’islam sectaire est devenu l’islam, Seuil, Paris 2007, e Dominique Avon & Abdellatif Idrissi, Du Coran et de la liberté de penser, « laviedesidees.fr » 21 ottobre 2008, http://bit.ly/2yWLrmM