Essenziale nella civiltà arabo-islamica è la tensione verso l'unificazione del divino e della realtà creata. In un mondo che tende alla contraddizione questo ideale si traduce nella ricerca di una concordanza tra gli opposti che la modernità ha messo in crisi
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:30:50
Il principio dell’unificazione nella civiltà arabo-islamica è un criterio essenziale per decidere che cosa accogliere e che cosa rifiutare nell’interazione con le altre culture: unificazione del divino, della fede, della legge, della religione, dello Stato, della nazione. In un mondo che tende alla contraddizione si tratta però di un ideale difficile da realizzare. Da qui nasce una conflittualità, storicamente risolta tramite la ricerca della concordanza degli opposti. La modernità dialettica mette in crisi questa soluzione.
La civiltà arabo-islamica tende con tutte le sue forze verso l’unificazione (tawhīd)[1]: unificazione del divino ovvero monoteismo, prima di tutto, ma anche unificazione della fede e della legge, unificazione della religione e dello Stato, unificazione dei messaggi profetici in un solo messaggio ininterrotto, unificazione delle civiltà in una civiltà universale, unificazione delle nazioni in una sola dottrina e unificazione dei numerosi Stati in una sola compagine. In sintesi, unificazione delle realtà in una parola unica, definitiva, eterna e immutabile[2].
La civiltà arabo-islamica tende con tutte le sue forze verso l’unificazione: unificazione del divino ovvero monoteismo, prima di tutto
Tuttavia questo nostro mondo si fonda per natura su contraddizioni e opposizioni. L’unificazione pura, semplice e totale è difficile da realizzare e ardua da conseguire – nella sua totalità purificata – in questo mondo plasmato dal dualismo. È un ideale a cui tendere e una meta verso cui dirigersi, ma non è mai pienamente raggiungibile. Come superare allora l’abisso tra Dio e l’uomo, tra aldilà e aldiquà, tra l’ideale trascendente e la realtà contaminata dalla molteplicità e dalla contraddizione? Dobbiamo arrenderci al dato del combattimento continuo e accettare il dualismo, proprio noi che siamo gli unitari per eccellenza?
Se la nostra realtà terrena ci impedisce di raggiungere l’ideale dell’unificazione nella sua totalità, la nostra risposta è cercare d’approssimarsi a esso, tentare di realizzare quell’accordo che è il desiderio profondo della ragione e dell’anima, per avvicinarci all’unità divina.
L’accordo è la scala che ci fa ascendere verso il monoteismo unitario, è la nostra aspirazione. In forza dell’accordo assumiamo le realtà contraddittorie, le avviciniamo tra loro, ne eliminiamo per quanto possibile gli elementi di opposizione e produciamo qualcosa che esprime la nostra passione per l’unificazione e la nostra tensione verso di essa, qualcosa che le assomiglia pur non arrivando a esserle identico, perché il mondo degli uomini non è il mondo del divino. Grazie all’accordo ci innalziamo sopra il livello del dualismo e ci avviciniamo all’unità divina, con esso oltrepassiamo la molteplicità verso le alture supreme dell’Unità. L’accordo resta la nostra espressione mondana, realizzata e imperfetta, della nostra fede monoteistica ideale e totale.
[Unicità della fede e universalità della cultura]
Nella misura in cui conciliazione e armonizzazione rappresentano il modo di avvicinarsi all’unificazione e alla salvezza che essa simboleggia, il conflitto e la molteplicità diventano espressioni di un passo indietro verso l’associazionismo e della rovina che ne consegue. Di qui discende coerentemente l’insistenza sull’unicità della divinità, l’universalità del dogma, l’onnicomprensività del regime politico, il consenso della tradizione, l’unità della comunità, la necessità di un solo imam e di una sola direzione della preghiera.
La molteplicità a livello della divinità è politeismo e miscredenza imperdonabile. La molteplicità a livello del dogma è il rifiuto e l’uscita dalla tradizione ortodossa[3]. La molteplicità a livello dello Stato è l’apostasia o la discordia civile (fitna) che minaccia l’unità della comunità.
L’accordo è la scala che ci fa ascendere verso il monoteismo unitario
Il principio dell’unificazione e dell’accordo fu un criterio essenziale per decidere che cosa accogliere e che cosa rifiutare nell’interazione con le altre civiltà. L’Islam entrò in contratto con il dualismo manicheo persiano direttamente nelle sue terre d’origine ancor prima di assorbire gli influssi ellenistici e coerentemente con la sua aspirazione all’unificazione e all’accordo si rifiutò decisamente di assumere questo dualismo conflittuale o di rapportarsi a esso in modo positivo o quantomeno di tollerarne dei riflessi nella letteratura e nel pensiero.
Il dualismo divenne l’eresia per eccellenza, la zandaqa, che fu considerata come la forma più ripugnante di miscredenza[4]. Questa zandaqa persiana fu combattuta alla stessa stregua del paganesimo arabo preislamico.
[L’incontro con Aristotele]
Gli sforzi del califfo al-Mahdī [r. 775-785] nel combattere la zandaqa e sradicare il dualismo manicheo[5] ebbero come unico parallelo possibile gli sforzi altrettanto intensi del califfo al-Ma’mūn [r. 813-833] per assorbire la razionalità ellenistica e incoraggiare la traduzione della sapienza greca[6]. Questo perché tale sapienza – nelle sue due componenti aristotelico-peripatetica e neoplatonica illuminazionista – parte, come l’Islam, da un principio unitario.
A nostro avviso fu questa la pietra angolare che permise il fecondo incontro storico tra Islam ed ellenismo. La scuola peripatetica infatti si basa sulla logica formale di Aristotele che pone a suo fondamento il principio di non contraddizione e considera l’esistente come un tutto logico e coerente, interamente derivato da un solo primo motore. E d’altra parte il neoplatonismo parte dall’idea dell’Uno, da cui deriva per emanazione immateriale il cosmo. […]
In tal modo le due prospettive islamica e greca – religiosa l’una e logica l’altra – s’incontrarono intorno alla necessità di creare una visione unificata del mondo. Fu questo elemento a dare profondità all’incontro tra l’Islam, con il suo principio di unificazione, e la sapienza greca, con la sua logica aristotelica, e fu questo stesso elemento a mantenere reciprocamente estranei Islam e manicheismo persiano. A nostro avviso, se la ragione greca fosse stata dualista o scettica per quanto riguarda la questione della divinità e della metafisica, l’incontro non sarebbe riuscito così bene. Lo vedremo tra poco quando esamineremo la crisi del neo-concordismo rispetto alla ragione europea moderna nella sua natura dialettica.
L’incontro tra Islam ed ellenismo non si limitò peraltro alla filosofia e alla teologia, ma investì anche la retorica, la stilistica, la critica e la grammatica, al punto che si può dire con verità che le due componenti più importanti con cui gli arabi contribuirono all’edificio della civiltà islamica universale, cioè la religione nelle sue componenti teologiche e giuridiche e la lingua come stilistica e come grammatica, furono formulate, nelle diverse discipline, secondo la logica aristotelica[7].
Ed è altrettanto significativo che l’Islam abbia trascurato nella tradizione greca l’elemento dionisiaco, vitalista, tragico e irrazionale, concentrando il suo interesse sull’elemento apollineo più tardo, ordinato, razionale e unitario, che ebbe inizio con Socrate e che Nietzsche considerava come antitetico al primo e come causa dell’estinguersi nella civiltà greca dell’arte drammatica e dell’era della tragedia e dell’eroismo primitivo[8].
Forse proprio per effetto di quest’atteggiamento unilaterale rispetto all’esistenza e di questo criterio unificatore e purificatore, fu naturale che la civiltà araba islamica non dedicasse molta attenzione all’esame della realtà tragica nella vita umana e alla rappresentazione della tragedia, a livello artistico e di stili di pensiero. […] All’ombra dello spirito dell’accordo, che si prefigge sempre di minimizzare gli elementi di contrasto e valorizzare i punti di intesa, la tragedia muore o meglio non nasce neppure e regna sovrano il monologo, il discorso del sé unificato, con il suo canto monocorde[9].
Ovviamente il fenomeno non si limitò alla letteratura. Nel campo del dogma, per esempio, la teologia non prese in considerazione gli aspetti di angoscia e tensione nell’esperienza religiosa, preferendo dedicarsi alla formulazione degli articoli di una fede monoteista definitiva e di natura intellettuale.
Per questa ragione la tradizione del pensiero islamico non conobbe nulla di simile alle Confessioni di Agostino. La preoccupazione di al-Ghazālī nello scrivere la Salvezza dalla perdizione[10] non è esporre la propria tensione psicologica o la propria esperienza del dubbio, quanto piuttosto fornire una guida intellettuale a conferma della fede prescritta, così da stroncare sul nascere la sofferenza personale e la tensione nel campo dell’esperienza religiosa[11]. E se è vero che al-Ghazālī ammise il misticismo, ne fece però un segreto da non divulgare, confessare o esprimere apertamente[12]. […]
Le due prospettive islamica e greca s’incontrarono intorno alla necessità di creare una visione unificata del mondo
A livello esistenziale comunque lo spirito dell’accordo, superando la lacerazione tragica e la scissione psicologica a favore di un’unificazione armonica, si muta in un elemento positivo e di progresso. Infatti l’accordo – quando è autentico, vero e coerente con la natura dell’epoca storica – riesce veramente a trionfare sulla lacerazione tragica, fondendo i contrari in una lega organica. Esso infonde nella personalità individuale e comunitaria una condizione di equilibrio, tranquillità e coerenza interiore che allenta la tensione psicologica e intellettuale, nell’uomo e nella società. In questo modo la civiltà, nella sua costituzione interiore, si fa armonica e i casi di schizofrenia e crollo intellettuale e psicologico diventano rari, al punto che sparisce storicamente il fenomeno del suicidio.
In effetti l’assenza di suicidi, così caratteristica della civiltà arabo-islamica, ha attirato l’attenzione degli studiosi ed è stata spiegata in vari modi[13]. Forse la nostra sottolineatura circa la centralità del principio dell’accordo nello spirito di questa cultura potrebbe gettare una luce aggiuntiva circa le componenti che l’hanno protetta da questa malattia psicologica, poiché quando l’accordo penetra in profondità nelle potenze della psiche e della ragione (e non resta soltanto una toppa mentale che cela una lacerazione nascosta), cancella il virus della pulsione di morte e riempie l’anima della beatitudine dell’unificazione.
[L’anello mancante del riformismo islamico]
La rivoluzione della ragione prodottasi in epoca moderna ha lanciato una duplice sfida ai due elementi del concordismo antico (ragione aristotelica e fede semitica) e in particolare alla visione unificatrice che li accomuna. Da un lato infatti si è verificato un rovesciamento nella concezione della logica, con il passaggio dalla logica formale aristotelica fondata sul principio della coerenza interna alla logica hegeliana dialettica che, in uno dei suoi aspetti, si basa sul principio della contraddizione interna come condizione ineluttabile per realizzare l’unità delle cose e l’unità del cosmo stesso.
D’altra parte mutava anche il concetto di ragione a livello metafisico, con il passaggio da una ragione oggettiva, credente, certa e sicura delle sue potenzialità, a una ragione idealista, guardinga, poco fiduciosa nei suoi mezzi e sicura solo della sua esistenza (Cartesio – Kant) o a una ragione sensibile, empirista e scettica, mentre si trasformava il rapporto tra ragione e religione: da una situazione di reciproca e stabile complementarietà, come nell’averroismo e nel tomismo, tale rapporto diventava un enigma aperto, percorso da tensioni che minavano alla radice l’antico equilibrio tra i due elementi. L’apice fu raggiunto con la pretesa da parte della ragione scientifica materialistica di ricondurre la fonte della fede celeste ai suoi corrispondenti sensibili terrestri e ridurla ad essi.
Muhammad ‘Abduh e la sua scuola non compresero assolutamente la portata della rivoluzione avvenuta nel concetto di ragione
Quando [a fine Ottocento] Muhammad ‘Abduh e la sua scuola riattivarono il movimento concordista e ripresero i tentativi di raggiungere un accordo tra fede e ragione, non compresero assolutamente la portata della rivoluzione avvenuta nel concetto di ragione, dall’oggettivismo di Aristotele all’idealismo di Cartesio e Kant né il passaggio qualitativo nella concezione della logica, tra le cui categorie più importanti figurava ormai il principio della contraddizione interna, nascosto nella natura delle cose e nei loro rapporti, nella natura dell’evoluzione e insomma nella natura di tutto l’essere[14]. Questo principio non risultò ostico al Cristianesimo, grazie al parallelo razionale tra la trinità dialettica (tesi, antitesi, sintesi) e il mistero trinitario (Padre, Figlio e Spirito Santo)[15]. Esso però non è per nulla facile da accettare per l’Islam, a meno che il pensiero islamico non riesca a ideare una forma di rapporto positivo tra l’unitarismo assoluto e trascendente e la dialettica dei contrari che procede attraverso sé stessa verso la realizzazione dell’unificazione desiderata.
A nostro parere il mancato raggiungimento, finora, di questa forma di rapporto rappresenta l’anello mancante nella catena di comunicazione tra il neo-concordismo e la “logica” del nostro tempo e spiega il fallimento dei vari tentativi concordisti, abortiti perché incapaci di offrire anche solo una base accettabile all’incontro tra la filosofia unitaria che è loro sottesa e il fenomeno della dialettica. […]
Qui dunque risiede il rompicapo più arduo per il concordismo contemporaneo: mentre il concordismo classico trovò il suo solido appoggio in una ragione filosofica greca naturalmente credente, il nuovo concordismo insegue una ragione diversa, rivoluzionaria, scettica. E ciò spiega la difficoltà a produrre un accordo su fondamenti solidi e stabili.
(Muhammad Jābir al-Ansārī, al-Fikr al-‘arabī wa-sirāʿ al-addād [Il pensiero arabo e il conflitto degli opposti], al-Mu’assasa al-‘arabiyya li l-dirāsāt wa l-nashr, Bayrūt 19992, cap. 12, pp. 589-600 passim, traduzione italiana di Martino Diez)
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] [Si tenga presente per la comprensione del testo che in arabo tawhīd significa etimologicamente “unificazione”, ma storicamente “monoteismo”. Salvo nei casi in cui il contesto suggeriva chiaramente il riferimento religioso, abbiamo preferito mantenere nella traduzione il senso etimologico. Circa la ricchezza di questo termine cfr. la nota successiva. NdT].
[2] Nella cultura araba la parola “unificazione” (tawhīd) ha una portata semantica eccezionale nella sua fecondità e nella profondità del suo influsso, essendo stata invocata da numerosi orientamenti divergenti. Dopo che l’Islam si consacrò fin dall’inizio a predicare il monoteismo (tawhīd), i mu‘taziliti si diedero il nome di gente della giustizia e del tawhīd, per via della loro dottrina, filosofica e razionale, che insegnava a spogliare l’essenza divina della pluralità degli attributi. Ma anche i loro oppositori salafiti wahhabiti si attribuirono il nome di movimento del tawhīd, per via del ritorno rigorista alla natura primitiva del tawhīd e del rifiuto delle innovazioni e dell’intercessione dei santi. D’altra parte anche i drusi si danno il nome di “unitari” (muwahhidūn) e quando Shiblī Shumayyil, il capofila del darwinismo arabo laico, abbracciò il materialismo scientifico che unisce tutte le realtà particolari e gli enti nell’unità della natura, riassunse la sua dottrina con la stessa eterna parola, tawhīd (cfr. Shumayyil, Falsafat al-nushū’ wa l-irtiqā’, p. 30). Sono solo quattro esempi, ma bastano a mostrare l’ampiezza e la persistenza nel pensiero arabo della spinta verso l’unificazione.
[3] [“Rifiutatori” è il termine utilizzato dai polemisti sunniti per designare gli sciiti, mentre i kharijiti sono appunto coloro che sono “usciti” dalla comunità. NdT]
[4] Cfr. la voce zindīq nell’Enciclopedia dell’Islam.
[5] Philip Hitti, History of the Arabs, pp. 430-431.
[6] Ibid., pp. 310-312.
[7] Scrive Ahmad Amīn: «La logica che arrivò agli arabi fu la logica di Aristotele aggiornata, arricchita e illustrata dalla logica stoica e alessandrina. Gli arabi non vi aggiunsero nulla di notevole» (Duhā al-Islām, vol. 1, pp. 274-275). Cfr. anche ‘Abd al-Rahmān Badawī, Aristū ‘ind al-‘arab. Dirāsa wa-nusūs ghayr manshūra, pp. 6-66.
[8] Nietzsche, The Birth of Tragedy, pp. 76-79.
[9] Forse questo approccio concordista spiega in parte perché la letteratura araba antica e medievale non abbia conosciuto l’arte tragica.
[10] [Celebre opera autobiografica del teologo, giurista e mistico al-Ghazālī (1058-1111), la Salvezza dalla perdizione è nella letteratura islamica il testo più accostabile alle Confessioni agostiniane. Traduzione integrale italiana in al-Ghazālī, Scritti scelti, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, UTET, Torino 1970. Un brano è stato pubblicato in «Oasis» 21 (2015), pp. 104-107, NdT].
[11] Al-Ghazālī scrisse la Salvezza dalla perdizione dopo aver recuperato la fede. […] Ma dell’esperienza della sofferenza psicologica legata allo scetticismo non si trovano che echi e allusioni lontane. Al-Ghazālī infatti riassume questa esperienza psicologica decisiva in due sole righe: «Il male sfidò ogni cura e si prolungò per circa due mesi, durante i quali io di fatto seguii l’indirizzo della sofistica, non facendone però parola o oggetto di scritto. Finalmente Dio mi guarì da quella malattia e recuperai salute ed equilibrio» (Al-Ghazālī, Al-Munqidh, 13). È chiaro che qui al-Ghazālī descrive l’esperienza in sintesi e dall’esterno, senza rivelarne il suo divenire interiore.
[12] Al-Munqidh, pp. 39-40. La condizione mistica per al-Ghazālī «è indicibile». Appena uno prova a esprimerla a parole, cade in errore manifesto».
[13] Cfr. Issawi, Egypt in Revolution, p. 15. Issawi allude a questo fenomeno storico e lo sostanzia per l’età contemporanea con una statistica che mostra come i Paesi islamici si caratterizzino rispetto agli altri Stati del terzo mondo per il numero molto ridotto di suicidi. Vedi anche Sāmī al-Jundī, ʿArab wa-Yahūd, p. 180, dove si afferma che il suicidio del generale [egiziano] ‘Abd al-Hakīm ‘Āmir [al termine della Guerra dei Sei Giorni] fu un evento eccezionale e annunciatore di un rivolgimento mentale inaudito nella natura della regione mediorientale.
[14] L’Epistola sull’unicità divina di Muhammad ‘Abduh, con cui comincia il neo-concordismo, si fonda sul principio dell’assenza di contraddizione e sul rifiuto della relazione oppositiva tra il positivo e il negativo nello stesso esistente. ‘Abduh afferma che «l’auto-negazione di una cosa è impossibile per evidenza», ciò che nega la possibilità della contraddizione dialettica tra il positivo e il negativo nello stesso esistente. Egli ritiene d’altra parte impossibile che la stessa cosa abbia diverse esistenze, in forza del puro tawhīd, senonché questa affermazione rende assolutamente impossibile – dal punto di vista filosofico – trovare una formula intellettuale convincente che spieghi il rapporto tra uno e molteplice e tra l’unità dell’essere e la sua contemporanea pluralità. Ugualmente Muhammad ‘Abduh segue i mu‘taziliti nella questione del Corano creato perché «sostenere il contrario è andare contro l’evidenza (l’evidenza di quale logica?) e attentare al concetto di eternità introducendovi il concetto di cambiamento e mutamento». Cfr. Muhammad ‘Abduh, Risālat al-tawhīd, pp. 38, 49, 51. In questo modo il pensiero del monoteismo si rinnovava senza confrontarsi con la dialettica dell’epoca.
[15] Val la pena osservare che il padre dell’idea della trinità dialettica, Hegel, arrivò alla filosofia a partire dalla teologia. Pertanto non è da escludere che le radici della trinità dialettica risiedano, coscientemente o istintivamente, nella dottrina cristiana della Trinità. Tanto più che Hegel “razionalizzò” la rivelazione, il dogma e l’assoluto.