Profeta dell’Islam, Gesù ha predicato una riforma della legge religiosa in senso non letteralista in un tempo in cui gli ebrei vivevano una crisi simile a quella dei musulmani oggi
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:23:32
Ai musulmani occorre una nuova strada creativa, fedele alla loro fede ma anche libera dalla zavorra della tradizione passata e del contesto politico attuale. Gesù, un grande profeta dell’Islam, ha predicato una riforma della legge religiosa in senso non letteralista in un tempo in cui gli ebrei vivevano una crisi simile a quella dei musulmani di oggi. Può dunque diventare una fonte d’ispirazione per la tanto agognata riforma dell’Islam.
Che problema c’è con l’Islam? Perché nel mondo ci sono così tanti musulmani arrabbiati che detestano l’Occidente? Perché Stati islamici auto-dichiarati impongono leggi durissime che opprimono le minoranze, le donne e gli “apostati”? Perché ci sono terroristi che uccidono nel nome di Allah?
Sono decenni che molti in Occidente si pongono queste domande. Le risposte variano da chi afferma che non c’è alcun problema con l’Islam oggi – ed è una posizione troppo difensiva – a chi sostiene che l’Islam stesso è un enorme problema per il mondo – ed è una risposta ingiusta e figlia di un pregiudizio. Fortunatamente, osservatori meglio informati hanno offerto risposte più oggettive: la civiltà islamica, che una volta era la più illuminata del mondo, sta attraversando una crisi acuta e dalle gravi conseguenze.
L’Islam, una religione che è sempre stata orgogliosa dei suoi successi terreni, si è trovato ad «affrontare l’Occidente con le spalle al muro»
Anche una delle menti più brillanti del secolo scorso, lo storico britannico Arnold Toynbee, ha riflettuto sulla crisi dell’Islam in un saggio pressoché dimenticato del 1948: Islam, the West, and the Future[1]. Secondo Toynbee, il mondo islamico è entrato in crisi nel XIX secolo perché è stato superato, sconfitto e addirittura assediato dalle potenze europee. L’Islam, una religione che è sempre stata orgogliosa dei suoi successi terreni, si è trovato ad «affrontare l’Occidente con le spalle al muro» e questo ha generato tensione, rabbia e scompiglio tra i musulmani.
Con l’intuizione del grande storico, Toynbee non ha solo analizzato la crisi dell’Islam, ma l’ha anche paragonata a una crisi più antica, in una religione più antica: la situazione degli ebrei di fronte alla dominazione romana del I secolo a.C. Anche gli ebrei erano un popolo monoteista con un’alta opinione di sé, ma erano stati conquistati, sconfitti e sfidati culturalmente da un impero straniero. Questa prova, spiegava Toynbee, generò due opposte reazioni: una fu “l’erodianismo”, cioè la collaborazione con Roma e l’imitazione del suo modello. L’altra consistette nello “zelotismo”, cioè la militanza contro Roma e l’adesione rigorosa alla legge ebraica.
Anche i musulmani moderni, sosteneva Toynbee, sono tormentati dalla lotta incessante tra i loro erodiani che imitano l’Occidente e i loro zeloti che incarnano «l’arcaismo richiamato in vita dalla pressione straniera». Lo storico indicava nel fondatore della moderna Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, un «arcierodiano», e nei wahhabiti dell’Arabia centrale degli arcizeloti, e prevedeva che alla fine gli zeloti sarebbero stati sconfitti perché incapaci di usare la tecnologia moderna. Se Toynbee fosse vissuto fino a oggi e avesse visto, per esempio, come lo Stato Islamico usa internet, probabilmente avrebbe rivisto il suo ottimismo.
Nel corso dei decenni, alcuni intellettuali musulmani hanno preso spunto dall’analogia di Toynbee, sostenendo che i musulmani sarebbero chiamati a trovare una terza via, qualcosa d’intermedio tra l’erodianismo e lo zelotismo. È una posizione ragionevole, ma che trascura un bel po’ di storia.
I dettagli della legge
Come Toynbee, questi aspiranti riformatori musulmani ignorano che il mondo ebraico del I secolo non si limitava alla dicotomia erodiani-zeloti. C’erano altri gruppi ebraici di varie tendenze intellettuali, mistiche o conservatrici. C’era anche un rabbi di Nazareth un po’ particolare: Gesù.
Gesù affermava di essere il salvatore – il Messia – atteso dal suo popolo. Tuttavia, a differenza di altri aspiranti messia del suo tempo, non scatenò una rivolta contro Roma. Ma neppure si piegò al suo impero. Piuttosto, concentrò le sue energie su qualcosa d’altro: rivivificare la fede e riformare la religione del suo popolo. In particolare, Gesù invitava i suoi correligionari a concentrarsi sui principi morali della loro religione, piuttosto che occuparsi ossessivamente dei dettagli della legge religiosa. Ad esempio, criticava i farisei legalisti che pagavano «la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe», per poi trasgredire «la giustizia e l’amore di Dio» (Lc 11,42).
I cristiani ovviamente conoscono molto bene questa storia. Ma anche i musulmani dovrebbero fare attenzione, perché stanno attraversando una crisi molto simile a quella a cui rispose Gesù: sotto pressione da parte di una civiltà straniera, sono allo stesso tempo tormentati dai propri fanatici, che vedono l’unica luce nell’imposizione di una legge rigida, la sharī‘a, e nella lotta per un governo teocratico. Ai musulmani occorre una terza via creativa, fedele alla loro fede ma anche libera dalla zavorra della tradizione passata e del contesto politico attuale.
Imparare da Gesù sarebbe un’idea del tutto nuova per i musulmani? In una certa misura sì. Essi rispettano e amano Gesù – e la sua madre immacolata, Maria – dal momento che il Corano li elogia incondizionatamente, ma la maggior parte di loro non ha mai pensato alla missione storica di Gesù, all’essenza del suo insegnamento e al modo in cui possa essere rilevante per la loro realtà.
Un’eccezione significativa è quella di Muhammad ‘Abduh, uno dei pionieri del modernismo islamico della fine del XIX secolo. ‘Abduh, uno studioso egiziano devoto, pensava che il mondo musulmano avesse smarrito la tolleranza e l’apertura dell’Islam primitivo e fosse stato soffocato da una tradizione dogmatica rigida. Quando lesse il Nuovo Testamento ne restò impressionato. Da musulmano, non concordava con la teologia cristiana su Gesù, ma era colpito dai suoi insegnamenti, attinenti a un problema che ‘Abduh osservava nel mondo musulmano: il fatto, come scriveva, che quest’ultimo fosse «rimasto congelato nel significato letterale della legge», non riuscendo così «a comprenderne le finalità».
È stato proposto un paragone tra i musulmani odierni e gli ebrei di fronte alla dominazione romana del primo secolo a.C.
Anche altri studiosi musulmani hanno notato gli stessi problemi messi in luce da ‘Abduh. Ma nessun leader religioso musulmano ha mai evidenziato allo stesso modo di Gesù il divario decisivo tra le finalità divine e un legalismo sterile. Gesù ha mostrato che sacrificare lo spirito della religione sull’altare del letteralismo porta all’orrore, come accade ancor oggi in alcuni Paesi musulmani. Ha insegnato anche che l’ossessione per le espressioni esteriori della pietà può alimentare una cultura dell’ipocrisia, come avviene oggi in alcune comunità musulmane.
Questi insegnamenti fondamentali di Gesù, a mio avviso, possono orientare i sentieri di riforma di noi musulmani in due aspetti chiave. Il primo è il Regno di Dio, ciò che i musulmani chiamerebbero il califfato. Il secondo è la legge religiosa, che i musulmani chiamerebbero sharī‘a.
“Il califfato è dentro di voi”
Al tempo di Gesù, molti ebrei erano ansiosi di vedere la venuta del Malkuta de-Adonai, il Regno di Dio: lo Stato sovrano di Israele, governato dal Messia divinamente guidato, avrebbe sconfitto e cacciato il tanto odiato impero di Roma. Una teocrazia autoctona, in altre parole, avrebbe fatto a pezzi l’occupazione straniera.
I farisei pregavano per il Regno di Dio e lo aspettavano con impazienza. La loro propaggine radicale, gli zeloti, aveva intrapreso una lotta attiva, attraverso ribellioni e assassini, o, come diremmo oggi, insurrezioni e terrorismo. Gesù, tuttavia, introdusse una nuova interpretazione del Regno di Dio. Come si legge nel Vangelo di Luca: «I farisei gli domandarono: “Quando verrà il regno di Dio?”. Egli rispose loro: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché, ecco, il regno di Dio è dentro di voi!”» (Lc 17,20-21)[2].
Questo celebre passaggio del Nuovo Testamento ha posto le basi per uno dei temi essenziali del Cristianesimo: la trasformazione del regno politico in un regno spirituale. Come ha scritto un commentatore cristiano, questo regno spirituale va «edificato nel cuore degli uomini e consiste nella sottomissione della volontà alla volontà di Dio e nella conformazione della mente alle sue leggi»[3].
Se ora ci spostiamo dalla Giudea del I secolo al mondo musulmano contemporaneo, vediamo che quest’ultimo prevede una potente anticipazione del Regno di Dio, chiamata califfato. Alcuni musulmani credono che questa teocrazia autoctona sconfiggerà e caccerà i romani di oggi e i loro collaborazionisti, dando gloria alla umma. Per alcuni musulmani la speranza di vedere l’instaurazione del califfato è una lontana utopia: possiamo classificarli come “conservatori”. Altri sono più impegnati e lavorano attivamente per realizzare l’utopia attraverso l’azione politica, ciò che vale loro l’appellativo di “islamisti”. C’è poi una piccola minoranza che opta per la lotta armata, i “jihadisti”. E tra questi jihadisti, solo l’ala più radicale, Isis, ha dichiarato un califfato (nel 2014), un passo che alla grande maggioranza dei musulmani è sembrato troppo militante.
Come gli ebrei del primo secolo, i musulmani hanno oggi i loro “erodiani” e i loro “zeloti”
Ma il califfato è davvero necessario per i musulmani? Per la maggior parte degli islamisti e dei jihadisti la risposta è: assolutamente sì. Essi vedono infatti nella restaurazione del califfato non solo una speranza da anticipare, ma un dovere da compiere: «La restaurazione di un khalīfa [califfo] è un obbligo per tutti i musulmani del mondo» afferma una fonte islamista contemporanea. «Compiere questo dovere, come ogni altro dovere prescritto da Allah ai musulmani, è un obbligo urgente davanti al quale non si può invocare scelta personale o trascuratezza»[4].
Tuttavia, altri musulmani pensano che il califfato – un termine che implica la successione del Profeta Muhammad alla guida politica dei musulmani – sia stata soltanto un’esperienza storica della comunità islamica, e non uno dei fondamenti dell’Islam. Questo argomento è stato avanzato con forza all’inizio del XX secolo dallo studioso egiziano ‘Alī ‘Abd al-Rāziq e dal turco Seyyid Bey, e da allora è stato riproposto da diversi pensatori riformisti, secondo i quali, più che sull’instaurazione di una forma specifica di Stato, le energie dell’Islam dovrebbero concentrarsi sulla promozione dei valori islamici in qualsiasi Stato che garantisca la sicurezza, la dignità e la libertà dei musulmani. E le società musulmane dovrebbero essere governate da leader e parlamenti democraticamente eletti[5].
Questa tesi riformista può essere in contraddizione con alcuni testi della tradizione islamica, ma trova il suo fondamento nientemeno che nel testo sacro dell’Islam, il Corano. Qui, il termine “califfo”, spesso tradotto come “vicario”, ricorre nove volte in diversi versetti, ma mai per indicare un’entità politica dei musulmani[6]. È piuttosto usato, abbastanza significativamente, per definire la natura degli esseri umani. In un passaggio memorabile del Corano, è Dio stesso a decretare questo califfato ontologico nel corso di una conversazione retorica con gli angeli:
E quando il tuo Signore disse agli Angeli: «Ecco, io porrò sulla terra un Mio Vicario», essi risposero: «Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi cantiamo le Tue lodi ed esaltiamo la Tua santità?» Ma Egli disse: «Io so ciò che voi non sapete». – Ed insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose, poi le presentò agli Angeli dicendo loro: «Or ditemi dunque i loro nomi, se siete sinceri». – Ed essi risposero: «Sia gloria a Te! Noi non sappiamo altro che quel che Tu ci hai insegnato, poiché Tu sei il Saggio Sapiente». – Ed egli disse: «O Adamo, di’ loro dunque i nomi di tutte queste cose!» E quando Adamo li ebbe edotti dei nomi, Iddio disse agli Angeli: «Non vi dissi che io conosco l’arcano dei cieli e della terra e so ciò che voi manifestate e ciò che celate in voi?» (Cor. 2,30-33).
In questo affascinante racconto sulle origini dell’uomo, Adamo, il primo essere umano, appare come khalīfa (vicario) di Dio, perché gli vengono insegnati «i nomi di tutte le cose», ma egli ha anche il potenziale di «portare la corruzione e spargere il sangue» sulla terra. Alcuni pensatori musulmani hanno interpretato questi versetti come prova della facoltà dell’uomo di imparare e usare la ragione, e della libertà di scegliere tra il bene e il male.
Il concetto coranico di khalīfa è una nozione metafisica che attribuisce all’umanità un posto speciale nella creazione di Dio
Tuttavia non è solo Adamo a essere vicario. Lo sono anche i suoi figli, cioè tutto il genere umano. «È lui che vi ha costituiti eredi (khalā’if) dei popoli primi, sulla terra, e v’ha innalzati per gradi gli uni sugli altri, per provarvi in quel ch’Egli vi ha dato. In verità il tuo Signore è veloce al castigo, in verità Egli è clemente pietoso» (6,165). Un altro versetto dichiara: «È lui che ha fatto di voi gli eredi ultimi (khalā’if) sulla terra: chi rinnega, contro a lui sia il suo diniego» (Cor. 35,39). Dunque anche i miscredenti sono vicari, dal momento che Dio li ha dotati della facoltà della ragione e del libero arbitrio, anche se li usano nel modo sbagliato.
In sintesi, il concetto coranico di khalīfa è una nozione metafisica che attribuisce all’umanità un posto speciale nella creazione di Dio. Non sorprende che i primi esegeti musulmani non vedessero alcun legame tra questa nozione metafisica e l’istituzione politica chiamata califfato, che fu assunta inizialmente dai compagni più prossimi del Profeta, ma fu presto dominata dalla monarchia ereditaria[7].
Oggi i musulmani possono perciò abbandonare il proprio attaccamento al califfato come entità politica, ma al tempo stesso impegnarsi a essere migliori “califfi” su questa terra, in quanto individui con facoltà e responsabilità date da Dio. Detto altrimenti, i musulmani possono pensare che il califfato non si trovi qui o là, ma dentro ognuno di noi.
“La sharī‘a è fatta per l’uomo”
L’altra grande passione degli ebrei al tempo di Gesù era la legge ebraica, o halakha, che letteralmente significa “la via”. Fondata sulle dettagliate prescrizioni della Torah, la halakha era un’ampia serie di norme che regolavano ogni aspetto della vita ebraica, dalle preghiere, alle norme alimentari, al diritto penale. Quest’ultimo, dal punto di vista della nostra sensibilità moderna, includeva alcune misure piuttosto dure, come la lapidazione a morte degli adulteri o dei colpevoli di blasfemia.
Oggi i musulmani possono abbandonare il proprio attaccamento al califfato come entità politica, ma al tempo stesso impegnarsi a essere migliori “califfi” su questa terra
Come si capisce dai vangeli canonici, Gesù introdusse un’interpretazione radicalmente nuova della halakha, perché aveva compreso le conseguenze negative del letteralismo cieco. La prima di queste era l’equazione tra la devozione e la pratica religiosa esteriore, che naturalmente portava all’ipocrisia. Ciò era specialmente vero per la classe clericale dall’auto-proclamata moralità: i sacerdoti, gli scribi e i farisei. «Guardatevi dagli scribi», diceva Gesù, «che vogliono passeggiare in lunghe vesti e si compiacciono di esser salutati nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti; divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa» (Lc 20,46-47).
Il fatto stesso che questi chierici guardassero il peccatore dall’alto in basso era una testimonianza della loro arroganza, un peccato più grande di molti altri. Gesù lo spiegava mettendo a confronto un fariseo e un esattore delle tasse, il cui lavoro era visto dalla maggior parte degli ebrei come una collaborazione proditoria con Roma:
Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». (Lc 18,9-14)
Il legalismo senz’anima non solo alimentava l’ipocrisia e l’arroganza, come abbiamo visto nella parabola appena citata, ma era anche causa d’ingiustizia o crudeltà in nome della legge. L’adultera che i farisei portarono a Gesù ne è un esempio. La halakha esigeva che fosse lapidata a morte, ma Gesù invocò misericordia. «Chi di voi è senza peccato», sono le sue celebri parole, «getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Anche in questo caso Gesù prendeva le parti degli umili peccatori di fronte all’ira di puritani ipocriti.
Gli stessi problemi di oggi
Allo stesso modo quando a Gesù fu chiesto il motivo per cui i suoi discepoli raccogliessero il grano da mangiare il giorno di sabato, durante il quale agli ebrei era proibita qualsiasi attività, egli rispose con una frase che fa riflettere: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). La legge, in altre parole, non esisteva per sé stessa, ma per gli uomini, e poteva essere reinterpretata a loro vantaggio.
Ora, se di nuovo ci trasferiamo dalla Giudea del I secolo al mondo musulmano contemporaneo, troveremmo una situazione molto simile riguardo alla legge religiosa. La versione islamica della halakha ebraica è la sharī‘a, che non solo ha lo stesso significato letterale – la via – ma prevede anche prescrizioni molto simili che coprono tutti gli aspetti della vita, dalle preghiere, all’alimentazione, al codice penale. Mentre gli ebrei hanno smesso da molto tempo di applicare il codice penale della halakha, alcuni musulmani contemporanei smaniano per applicare il codice penale della sharī‘a, compresi i suoi aspetti più agghiaccianti, come la lapidazione degli adulteri e la condanna a morte di eretici e blasfemi.
La devozione dei musulmani nei confronti della sharī‘a nasce spesso da un sentimento di giustizia, ma la sua declinazione letteralista finisce per causare tremende ingiustizie. È il caso per esempio delle donne musulmane, anche ragazze molto giovani, che prima vengono stuprate dagli uomini per poi essere lapidate da altri per “adulterio”. Lo schema, che si è ripetuto più volte in Nigeria, Somalia e Afghanistan, prevede che la vittima sia prima violentata di nascosto. Rimasta incinta, viene accusata dai suoi parenti e infine da un tribunale. Qui non può dimostrare di essere stata violentata, perché la sharī‘a richiede “quattro testimoni oculari” per denunciare un reato sessuale. Tuttavia la gravidanza prova che la ragazza ha commesso in qualche modo un “adulterio”, e per questo viene pubblicamente lapidata a morte[8].
Casi tanto sconcertanti di omicidio giudiziale non si sarebbero verificati se quanti vogliono imporre la sharī‘a si fossero preoccupati dell’intenzione delle sentenze che essi hanno eseguito soltanto nella lettera. Il Corano, che non dice nulla sulla lapidazione, effettivamente prevede la necessità di “quattro testimoni oculari”. Ma prevede questa norma soltanto in un’ottica di protezione della donna dalle accuse pretestuose di adulterio: «E quelli che accusano donne oneste, e poi non possono portare a conferma quattro testimoni», dice un versetto «ricevano ottanta colpi di frusta, e non s’accolga più in eterno la loro testimonianza» (Cor. 24,4). I quattro testimoni quindi servono perché il Corano intende proteggere le donne innocenti da false accuse. Nella pratica letteralista, tuttavia, questa nobile intenzione può essere utilizzata a servizio di un crudele modello di misoginia.
La devozione dei musulmani nei confronti della sharī‘a nasce spesso da un sentimento di giustizia, ma la sua declinazione letteralista finisce per causare tremende ingiustizie.
Il passo che i musulmani sono chiamati a compiere è capire che, allo stesso modo della halakha, la sharī‘a è fatta per gli uomini – e naturalmente per le donne – e non l’inverso. Fortunatamente, questo approccio interpretativo alla legge è parte della tradizione islamica e aspetta solo di essere riscoperto. La sua origine risale a studiosi medievali come Shātibī (m. 1388), un pensatore andaluso che si è concentrato sui maqāsid, o obiettivi, della legge islamica, definendoli come la protezione di cinque valori fondamentali: religione, vita, intelletto, lignaggio e proprietà. Secondo Shātibī, solo la realizzazione di queste cinque finalità avrebbe potuto infondere «uno spirito nel corpo morto e una vera sostanza nell’involucro esterno [della legge]»[9]. In epoca moderna, pensatori islamici d’avanguardia come Fazlur Rahman Malik (m. 1988) hanno tentato di ridar vita a questo approccio non letteralista alla legge islamica con un ammirevole sforzo intellettuale di riforma, per quanto dall’impatto limitato.
Potremmo però ricordare che Gesù, un grande profeta dell’Islam, ha predicato lo stesso tipo di riforma per il Giudaismo in un tempo in cui gli ebrei erano esattamente come noi. Gesù può dunque diventare una fonte d’ispirazione per la tanto agognata riforma dell’Islam.
Se Gesù è un “profeta dell’Islam”, come noi musulmani diciamo con orgoglio, dovremmo pensare a queste cose. Perché Gesù ha affrontato gli stessi problemi che ci assillano oggi e ha inaugurato una sapienza profetica del tutto appropriata per i nostri tempi.
[Questo articolo è pubblicato nella rivista Oasis n. 26 Musulmani, fede e libertà]
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Testo tradotto dall’inglese
Note
[1] Il saggio si trova in Arnold J. Toynbee, Civilization on Trial, Oxford University Press, Oxford 1948. Tutte le citazioni sono tratte dal capitolo “Islam, the West, and the Future”.
[2] Nell’originale inglese, i versetti del Vangelo sono citati dalla Bibbia di re Giacomo, in cui Gesù afferma che il Regno dei cieli è «within you» (in voi) e non «in your midst» o «among you» (fra di voi), espressioni usate in altre traduzioni inglesi e nella Bibbia CEI. L’originale greco (entòs hymôn) consente entrambe le traduzioni. Girolamo rende in latino con «intra vos» (fra di voi). L’autore giustifica la sua scelta della Bibbia di Re Giacomo «perché ha avuto un influsso molto pronunciato nello stabilire la comprensione occidentale cristiana di un regno spirituale» (NdT).
[3] Joseph Benson, Commentary of the Old and New Testaments, T. Carlton & J. Porter, New York 1857, http://biblehub.com
[4] The Re-establishment of the Khilafah Is an Obligation upon all Muslims, editoriale del sito www.khilafah.com. Il sito riporta le idee dello Hizb al-Tahrir, un’organizzazione islamista che si prefigge la restaurazione del califfato. L’articolo è disponibile al seguente collegamento http://bit.ly/2yK8gd8
[5] Per una buona analisi del califfato, di altri concetti politici dell’Islam e del dibattito intorno a essi, si veda Asma Afsaruddin, Contemporary Issues in Islam, Edinburgh University Press, Edinburgh 2015, pp. 54-85.
[6] L’unico versetto coranico che sembra usare il titolo di califfo riferito all’autorità di un singolo essere umano piuttosto che all’umanità nel suo insieme è 38,26, che parla di (re) Davide: «O Davide! Noi t’abbiam costituito Vicario sulla terra, giudica dunque fra gli uomini secondo verità». I commentatori e i traduttori moderni concordano comunque sul fatto che questo versetto riguarda solo Davide e che «il Corano non offre un criterio chiaro sulla posizione del califfo come guida suprema della umma». Si veda Sean Oliver-Dee, The Caliphate Question: the British Government and Islamic Governance, Lexington Books, Lanham (UK) 2009, p. 16.
[7] «Durante il periodo omayyade, gli esegeti non stabilivano alcun legame tra il termine coranico khalīfa e la realtà politico-religiosa dell’istituzione califfale. Questa tendenza iniziò a cambiare nella seconda metà del II/VIII secolo, quando fece la sua comparsa un’interpretazione più ampia». Furono studiosi come Tabarī a «creare una fusione completa tra il khalīfa coranico e il capo del califfato islamico», Wadad Kadi, “Caliph”, Encyclopedia of the Qur’an, Brill, Leiden 2001-2006, vol. 1, pp. 277-278.
[8] Questo schema tremendo è stato riferito in vari casi in Nigeria, Somalia e Afghanistan, in particolare sotto il governo di gruppi estremisti come al-Shabaab o i talebani, o, nelle aree tribali del Pakistan, per via extragiudiziale. Per una panoramica di incidenti simili si veda Justice for Iran, “Mapping Stoning in Muslim Contexts”, febbraio 2012, http://bit.ly/2klJgqC
[9] Al-Shātibī, Kitāb al-Muwāfaqāt, a cura di Abū ‘Ubayda Mashhūr Ibn Hasan Āl Salmān, Dār Ibn ‘Affān, Cairo s.d., vol. 1, introduzione dell’autore, pp. 7-12, parafrasata da Fazlur Rahman, Islam, Anchor Books, Garden City (NY) 1968, p. 136.