Primavera araba: parentesi ormai definitivamente chiusa o sussulto di un ciclo storico tutt’altro che esaurito? L’editoriale del numero 31 di Oasis
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:40
A dieci anni dal loro scoppio, il giudizio sulle Rivoluzioni arabe sembrerebbe senza appello: chiedevano la democrazia, hanno generato caos e violenza. Nell’immediato non c’è molto discutere. Più controverso è stabilire le cause di quest’esito e soprattutto i possibili effetti di lungo periodo degli eventi del 2011. Si tratta di una parentesi ormai definitivamente chiusa? O siamo invece di fronte al sussulto di un ciclo storico tutt’altro che esaurito? Sono domande che non riguardano soltanto il mondo arabo, ma chiamano direttamente in causa anche l’Occidente.
Come ha scritto infatti Hamit Bozarslan, «pensare il Medio Oriente degli anni 2000 significa pensare il nostro mondo [europeo] a partire dai suoi “altrove”, che in realtà non abbiamo alcuna ragione di relegare a semplici “altrove”»[1]. Anche solo la cronaca degli ultimi anni, con la crisi dei rifugiati e l’esplosione del jihadismo in Europa, dovrebbe bastare a provare la fondatezza di queste parole.
L’ipotesi di questo numero della rivista, e di un più ampio progetto di ricerca in cui Oasis è impegnata nel biennio 2020-2021[2], è che le rivoluzioni del 2011 non siano del tutto fallite, ma rimangano “incompiute”. Un primo elemento a sostegno di questa tesi sono le proteste esplose nel 2019 in Algeria, Sudan, Libano e Iraq, culminate nei primi due casi nella rimozione di presidenti al potere da decenni. Ma la questione è più profonda di quanto suggerisca la semplice osservazione fattuale di questa seconda ondata.
Nelle convulsioni della sponda Sud del Mediterraneo convergono infatti almeno due grandi fattori strutturali. Il primo è costituito dalle contraddizioni degli Stati arabi post-coloniali, e in particolare di quelli repubblicani. Molti di questi regimi, infatti, hanno messo il popolo al centro della loro retorica, ma gli hanno impedito di partecipare attivamente alla vita politica; hanno attuato una decisa modernizzazione delle strutture politiche ed economiche, ma limitandola per lo più agli aspetti tecnici e materiali; hanno promesso il riscatto dal sottosviluppo, ma hanno imposto una gestione patrimoniale dell’economia.
A ciò si aggiunga, nel caso del Levante arabo, il paradosso dei sistemi che, da araldi dell’identità e dell’unita araba, si sono trasformati in spietati manovratori delle appartenenze confessionali. La contestazione islamista è attecchita sul terreno di queste contraddizioni, ma invece di risolverle ha continuato ad alimentarle. Un po’ ovunque nel mondo sunnita, parole d’ordine come “l’Islam è la soluzione” o “il Corano è la nostra Costituzione” sono state tanto potenti nel catalizzare il malcontento quanto incapaci di rappresentare una vera alternativa di governo[3].
Il secondo aspetto da tenere in considerazione è rappresentato dai cambiamenti sociali, e in particolare delle strutture famigliari. A partire dagli anni ’70, la diminuzione del tasso di fecondità e l’aumento di quello di alfabetizzazione hanno prodotto anche nelle società arabe quella transizione demografica che normalmente va di pari passo con la formazione di una classe media e la richiesta di democratizzazione del sistema politico. Non è un caso che ad animare le proteste del 2011 siano stati soprattutto giovani istruiti le cui aspirazioni erano soffocate dalle disfunzioni dei regimi esistenti.
È dal cortocircuito tra le aspettative di questa gioventù modernizzata e il cambiamento abortito dei sistemi politici che nasce il dramma delle rivoluzioni incompiute. Ma a quest’esito non è estranea la natura della mobilitazione dei manifestanti, che hanno detto chiaramente contro chi (regimi dispotici e corrotti) e in nome di cosa (dignità, libertà, giustizia) sono scesi in piazza, ma non sono riusciti a tradurre questi valori in un progetto alternativo, affidando alle forze esistenti l’inverosimile compito di realizzarli.
Da questo punto di vista, è la nozione stessa di rivoluzione a dover essere problematizzata. Negli anni ’50 e ’60, l’impeto rivoluzionario del socialismo arabo ha prodotto mobilitazione popolare e cambiamento politico (con tutti i limiti impietosamente evidenziati da Sādiq al-‘Azm nelle pagine che abbiamo riprodotto nella sezione “classici”). Dal canto suo la rivoluzione islamista, se si eccettua il caso dell’Iran sciita e della tragedia algerina, ha operato soprattutto a livello culturale, imponendo la sua agenda anche a sistemi più o meno secolarizzati. Con la parziale eccezione della Tunisia, le rivoluzioni democratiche del 2011, anche dove sono riuscite nell’impresa di rovesciare l’autocrate in carica, non hanno generato né una nuova cultura né un nuovo ordine politico.
Eppure è difficile che il mondo arabo possa continuare a ignorare le rivendicazioni che le piazze hanno fatto emergere, anche se il contesto attuale non è più promettente di quello di dieci anni fa. Il calo della rendita petrolifera priverà i regimi di una risorsa che si è rivelata fondamentale per bloccare il fermento democratico del 2011, ma, combinata ai devastanti effetti della pandemia di coronavirus, aggraverà anche l’impoverimento delle società. Questo produrrà ulteriore malcontento e quindi nuove proteste, ma rischia anche di ostacolare la maturazione politica di popolazioni sempre più costrette a concentrarsi sulla propria sopravvivenza.
Si tratta naturalmente di valutazioni che delineano una tendenza e non sono generalizzabili all’insieme del mondo arabo. Se in contesti come la Siria e la Libia la situazione è ormai compromessa da anni di violenza e in Libano non si vedono vie d’uscita da una crisi sistemica, da altri Paesi giungono segnali più incoraggianti. È il caso per esempio dell’Algeria, dove il regime non ha più molte armi da giocarsi con una piazza che è arretrata soltanto di fronte all’emergenza sanitaria.
Al di là delle differenze tra Stati, è comunque difficile che un movimento di rinascita possa mettersi in moto senza una qualche modifica nei termini dell’equazione irrisolta che le rivoluzioni hanno espresso. Una di queste potrebbe essere rappresentata dalla dimensione religiosa.
Sorpresi da proteste sostanzialmente laiche, partiti islamisti e istituzioni islamiche ufficiali si sono ripresi la scena nella fase post-rivoluzionaria. I primi, dopo anni passati all’opposizione o in clandestinità, hanno assunto le redini delle transizioni post-rivoluzionarie. Le seconde hanno trovato una nuova centralità nel momento in cui sono state chiamate dagli Stati a rispondere alla sfida jihadista. Le forze islamiste hanno dimostrato di potersi adattare al cambiamento, ma non di saperlo guidare. Le istituzioni islamiche ufficiali hanno insistito sulla convivenza interreligiosa contro le atrocità commesse dall’Isis, ma al tempo stesso hanno incoraggiato la passività nei confronti dei regimi esistenti.
In società fortemente permeate dalla religione, il cambiamento dovrà passare anche per un rinnovamento di questa dimensione, che la renda capace di assumere le attese che le proteste rivoluzionarie hanno portato alla luce ma non soddisfatto.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Michele Brignone, I termini mancanti dell'equazione, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 7-9.
Riferimento al formato digitale:
Michele Brignone, I termini mancanti dell'equazione, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/i-termini-mancanti-dell-equazione