Un’analisi delle relazioni tra cristiani e musulmani nei primi secoli dell’Islam a partire dalla prospettiva del martirio cristiano
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:21
Recensione di Christian C. Sahner, Christian Martyrs under Islam, Princeton University Press, Princeton & Oxford 2018
L’espansione, a partire dal VII secolo, della nascente comunità islamica, portò quest’ultima ad avere contatti sempre più frequenti con le comunità cristiane. Da questo momento in poi le interazioni tra i due gruppi religiosi assumeranno un carattere complesso, talvolta determinato anche dalla violenza.
Con il suo Christian Martyrs under Islam, Christian C. Sahner, professore di Storia islamica all’università di Oxford, analizza questa tumultuosa fase storica a partire dalla prospettiva del martirio cristiano, individuata come via privilegiata per comprendere il tema molto dibattuto delle relazioni tra cristiani e musulmani nei primi secoli dell’Islam.
Sebbene venga oggi spontaneo collegare questa vicenda con le sofferenze vissute dai cristiani del Medio Oriente negli ultimi anni, l’autore stesso chiarisce nella Prefazione che la sua intenzione non è quella di «scrivere una storia che connetta passato e presente», specificando che il suo libro non vuole «fare paragoni tra la violenza religiosa della prima era islamica e la violenza odierna» (p. xi). Tuttavia Sahner afferma di essere stato sollecitato a intraprendere questa ricerca proprio dai sanguinosi eventi che hanno seguito le primavere arabe del 2011 e di aver visto nelle persecuzioni messe in atto dallo Stato Islamico ai danni delle minoranze cristiane di Siria e Iraq una serie di elementi ricorrenti anche al tempo della prima espansione dell’Islam, su cui stava già lavorando in precedenza.
Partendo dalle biografie di una serie di martiri appartenenti a diverse Chiese orientali, vissuti tra il VII e il X secolo in un contesto geografico che si estende dal Caucaso all’Andalusia, passando per il Medio Oriente e il Nord Africa, lo studio indaga gli ambienti storico-sociali che hanno accompagnato tali eventi. Tra questi martiri, che Sahner chiama neo-martiri per distinguerli dalle vittime delle persecuzioni avvenute sotto gli Imperi romano e sassanide, si possono individuare due categorie principali: gli apostati, musulmani che si sono convertiti o cristiani che hanno abbondanto l’Islam dopo averlo momentaneamente abbracciato, e i blasfemi, cristiani che sono stati condannati e uccisi per avere insultato, senza mostrare segni di pentimento, il Profeta e l’Islam.
Tra gli apostati è significativo il caso del martire Elia di Eliopoli (odierna Baalbek, in Libano), un cristiano siriaco ucciso nel 799 a Damasco in circostanze stravaganti: durante una festa, gli era stato infatti sfilato lo zunnār – la cintura che al tempo identificava i non-musulmani – così che, una volta uscito, egli era inconsapevolmente diventato musulmano. L’indomani, mentre si recava in chiesa a pregare, era stato così accusato di apostasia. Costretto ad abbandonare la città a causa del pericolo che lo minacciava, vi aveva fatto ritorno otto anni dopo, pensando che la questione fosse ormai dimentica. Ma poiché continuava a dichiararsi cristiano, fu condannato e ucciso in quanto apostata.
Tramite storie come questa, Sahner non si limita a trattare la questione dell’apostasia, ma riflette anche sul processo di formazione di un sistema normativo islamico, sulla dimensione sociale dei fenomeni di conversione e sulla religiosità dell’epoca. Quando Muhammad era ancora in vita, l’aspostasia non rappresentava infatti un problema particolarmente sentito, è nei due secoli successivi che essa diventa un reato codificato dal diritto islamico e sanzionato con la morte del colpevole. Ma l’episodio di Elia di Eliopoli, dimostra anche come la religiosità dell’VIII secolo consistesse in un’adesione «più culturale che confessionale» (p. 33) e nel riconoscimento di un determinato status sociale ed economico più che in una vera e propria adesione personale fondata su una certa convinzione. L’avvicinamento tanto al Cristianesimo quanto all’Islam poteva fondarsi semplicemente sull’assunzione di simboli, di elementi esteriori e di pratiche indistinte che spesso non permettevano di tracciare un confine tra un percorso religioso e l’altro. La “conversione passiva” di Elia di Eliopoli, intrapresa inconsapevolmente o sotto inganno, semplicemente a causa di un’alterazione degli elementi simbolici esteriori, è emblematica di questa “religiosità culturale”. Sahner mette perciò in guardia dalla tentazione di pensare i percorsi di conversione come esito esclusivo di una deliberata iniziativa personale motivata da un bisogno esistenziale. Con l’arrivo dei primi musulmani e l’imposizione politica di un potere legittimato dall’Islam, emersero infatti «molti motivi per stabilizzarsi tra le file dei musulmani» (p. 34) per lo più legati a qualche convenienza sociale ed economica. Sahner riporta numerose situazioni in cui i cristiani si sono adattati all’Islam senza troppe esitazioni, nella modalità di un “cambio di cultura” più che di dottrina (p. 33).
Tuttavia non tutte le conversioni sono state “culturali” e formali. Un esempio in questo senso è quello di Vahan di Goltʻn, armeno condannato per apostasia e ucciso nel 737 a Rusafa (attuale Siria). Questi, rimasto orfano all’età di quattro anni, era stato venduto come schiavo alla corte ommayade di Damasco. Cresciuto e istruito come musulmano, Vahan aveva manifestato spiccate doti intellettive, tanto che il califfo aveva deciso di liberarlo e di rimandarlo in Armenia affinchè l’amministrasse come vassallo degli ommayadi. Nella sua terra natia Vahan aveva riscoperto la fede cristiana e intrapreso la vita monastica. In seguito, recatosi alla corte ommayade per annunciare pubblicamente il suo ritorno al Cristianesimo, era stato condannato e ucciso.
Molti e significativi sono i casi di dietro-front nell’appartenenza religiosa, ossia di persone che hanno conosciuto entrambe le esperienze di fede, hanno riconosciuto l’Islam come più conveniente da un punto di vista sociale, ma non hanno poi potuto fare a meno di tornare al Cristianesimo.
Per quanto riguarda invece le martirizzazioni legate alla blasfemia, Sahner mostra come questo reato fosse particolarmente diffuso nell’area andalusa tra il IX e il X secolo. Dal punto di vista giuridico la sua cristallizazione è stata estremamente lenta, ed è per questo motivo che esso è associato ad azioni molto diverse. A volte venivano considerate blasfeme affermazioni percepite come offensive a causa dell’incomprensione di reciproche verità teologiche: ciò che per qualcuno era espressione di verità religiosa per altri poteva essere un insulto contro il proprio credo. In altri casi invece tale reato era caratterizzato da vere e proprie forme di sfida verbale nella modalità della parrhēsia greca, il discorso libero e audace messo in atto con l’obiettivo dimostrare la falsità della religione altrui.
È questo il caso di Pietro di Capitolia (attuale Bayt Ras nel nord della Giordania), condannato per blasfemia e ucciso nel 715. Egli era sacerdote nel suo villaggio e da sempre aveva manifestato la vocazione al martirio affinchè i cristiani «scegliessero la morte nel nome di Cristo piuttosto che questa vita effimera» (p. 132). Aveva così deliberatamente deciso di morire martire sperando di « diventare un simbolo di forza e resistenza per gli altri cristiani» (p. 133). Per raggiungere questo obiettivo ha cominciato a insultare pubblicamente il Profeta e l’Islam con toni molto violenti. Così, dopo tre episodi di pubblica diffamazione e altrettanti rifiuti di pentimento, i califfi lo avevano condannato a morte e crocifisso. In questo periodo, l’iniziativa spontanea di alcuni cristiani di insorgere verbalmente contro l’Islam dimostra secondo Sahner il desiderio di esprimere con forza la propria identità ormai debole nei confronti dei conquistatori.
Sahner riflette sul fatto che, in un’epoca in cui i cristiani in Medio Oriente correvano effettivamente il rischio di scomparire e non si erano ancora rassegnati alla condizione di minoranza, l’accettazione eroica della morte da martire potesse diventare esempio da imitare e venerare. La preoccupazione tanto di alcuni martiri quanto degli autori delle loro agiografie sembra essere stata infatti quella di dimostrare che può valere la pena di perdere la propria vita per salvare la propria identità religiosa dall’oppressione dei musulmani.
Sahner utilizza come fonte e supporto di questa analisi informazioni provenienti da racconti agiografici chiamati Vite dei santi, ambientati in questo stesso periodo e scritte prevalentemente da monaci; da calendari liturgici (Synaxaria), che permettono l’identificazione di alcuni santi venerati in determinate epoche storiche e da cronache, in cui però non sempre si capisce se i personaggi in questione venissero effettivamente venerati come martiri. Per valutare l’attendibilità di questi racconti l’autore li analizza in modo critico, paragonandoli anche alle fonti islamiche coeve.
Il declino della venerazione di questi neo-martiri, a partire dal X e XI secolo, attesta secondo lo studioso britannico una trasformazione nell’autopercezione delle comunità cristiane in Medio Oriente, consapevoli ormai di rappresentare una minoranza che non ha più bisogno di rivendicare la propria identità tramite la resistenza ostile all’oppressore fino ad arrivare al martirio simbolico. Questa constatazione può invitare a una riflessione e a un paragone con i nostri tempi. La recente beatificazione dei martiri d’Algeria segnala infatti che il martirio cristiano non è più rivendicato come un simbolo di resistenza. I martiri dei nostri tempi non hanno accettato la morte per riscattare l’identità cristiana, né per reagire eroicamente all’oppressione, ma per solidarietà coi musulmani algerini e come conseguenza ultima di quel “dono di sé” che ha caratterizzato la loro presenza in terra d’Islam.