L’Islam è nato democratico, sostiene un intellettuale siriano del XIX secolo, ma poi qualcosa è andato storto e, a meno che si applichi uno stile politico fondato sulla consultazione, questa deriva avrà fine soltanto con il Giorno del Giudizio
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:33:22
Leggi l’introduzione a questo classico: Quando l’Islam discute sulla libertà
Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso
Lode a Dio creatore dell’universo secondo un ordine stabile e saldo, e pace e benedizione sui suoi nobili profeti, guide delle nazioni alla verità rivelata, e in particolare sul profeta arabo inviato come misericordia per le creature, perché le innalzi in questa e nell’altra vita sulla scala della sapienza fino a raggiungere il luogo supremo[1].
Sono un musulmano arabo costretto all’anonimato come un debole oppresso e che espose le sue opinioni [con uno pseudonimo] sotto il cielo d’Oriente, sperando nell’approvazione dei lettori, secondo il detto che la verità si conosce per sé, non per chi la enuncia. Nell’anno 1318 dell’egira (=1900/1901), lasciai la mia patria in Oriente in cerca di respiro e mi recai in Egitto. Qui fissai la mia dimora, profittando del clima di libertà che vi regna sotto il suo signore ‘Abbās II[2], il quale porta lo stesso nome dello zio del Profeta, e che ha diffuso la sicurezza ovunque nel suo regno. Trovai che anche in Egitto, come in tutto l’Oriente, le menti delle classi elevate erano immerse nelle riflessioni intorno alla questione suprema, intendo la questione sociale, nell’Oriente in generale e tra i musulmani in particolare e che, come gli altri che vi riflettevano, anche gli egiziani erano divisi circa le cause della decadenza e la possibile medicina.
Personalmente sono giunto alla conclusione che la radice di questa malattia è il dispotismo politico e la medicina la consultazione costituzionale (al-shūrā al-dustūriyya). Mi sono determinato a questa conclusione – e «ogni annuncio ha il suo tempo determinato» (Cor. 6,67) – dopo una ricerca di trent’anni che credo abbia abbracciato tutte le cause che un ricercatore può immaginare a prima vista. Questi infatti può credere d’aver individuato la radice del male o quanto meno la sua fonte principale, ma approfondendo la questione non tarda a rendersi conto che le cose stanno ben diversamente e che quella che ha indicato come radice del male è in realtà un effetto. Immaginiamo per esempio che uno affermi che la radice del male sia la trascuratezza negli obblighi religiosi. Benissimo, ma perché questa trascuratezza? Un altro potrebbe dire che il male risieda nella divergenza di opinioni, ma da dove origina? Se risponde che la fonte della divergenza è l’ignoranza, dovrebbe poi spiegare perché in realtà essa sia più forte tra i dotti. Cadendo allora in un circolo vizioso, finirà per dire che questa è la volontà di Dio rispetto alle sue creature, senza badare al fatto che la sua ragione e la sua religione gli insegnano che Dio è sapiente, giusto e misericordioso.
A beneficio dei lettori offro dunque queste ricerche che mi sono costate tanta fatica e per cui ho rischiato perfino la vita. In tal modo essi sapranno che ho accettato la tesi secondo cui la radice del male è il dispotismo politico solo dopo lunga fatica che probabilmente ha colto nel segno. Chiedo a Dio che la mia buona intenzione copra gli errori. […]
1320 dell’egira – 1902 dell’era cristiana
Premessa
[…] Prima di immergerci nella questione, possiamo riassumere le conclusioni a cui sono pervenuti quanti hanno studiato l’argomento. Essi dicono la stessa cosa con parole diverse, secondo le diverse scuole e opinioni.
Il materialista afferma: “Il male è la potenza, la medicina la resistenza”.
Il politico: “Il male è l’asservimento degli uomini, la medicina recuperare la libertà”.
Il saggio: “Il male è il potere arbitrario, la medicina usare l’equità”.
Il giurista: “Il male è la prevaricazione dell’autorità sulla Legge (sharī‘a), la medicina la supremazia della Legge sull’autorità”.
Lo spirituale: “Il male è associare qualcosa a Dio nella sua Onnipotenza, la medicina professare davvero l’unicità di Dio”.
Così dicono i teorici. Quanto agli attivisti, l’altero afferma: “Il male è piegare il collo alle catene, la medicina è sollevarsi dall’umiliazione”.
Il tenace: “Il male è l’esistenza di capi senza briglie, la medicina è legarli con vincoli pesanti”.
Il libero: “Il male è credersi superiori agli altri, la medicina umiliare i superbi”.
E chi è pronto al sacrificio afferma: “Il male è amare la vita, la medicina è amare la morte”.
Il dispotismo e la religione
La maggior parte degli storici delle religioni sono concordi nell’affermare che il dispotismo politico nasce dal dispotismo religioso. Altri dicono che i due, se non nascono uno dall’altro, sono quantomeno fratelli, avendo come padre l’abuso e come madre la supremazia, o meglio gemelli, uniti dalla necessità di collaborare per asservire l’uomo. La somiglianza tra di loro consiste nel fatto che entrambi esercitano un potere, uno nel regno dei corpi, l’altro nel mondo delle anime.
Questi due gruppi di studiosi colgono nel segno per quanto riguarda il senso dei miti antichi, i libri storici della Torah[3], e le Epistole aggiunte al Vangelo, ma errano per quanto riguarda le sezioni didattiche e morali di questi libri sacri, come pure si sbagliano nel pensare che il Corano appoggi il dispotismo politico. La sottigliezza del Corano e la difficoltà a conoscere le dottrine nascoste nelle pieghe della sua eloquenza o dietro la conoscenza delle circostanze della rivelazione non sono infatti un buon motivo [per ignorarlo] e sostituire al suo studio – come essi affermano per giustificarsi –l’osservazione della condizione in cui i musulmani versano da secoli e fino a oggi, caratterizzata da despoti che si sostengono con la religione.
Questi liberi pensatori (muharrirūn) sostengono che gli insegnamenti religiosi, compresi i Libri celesti[4], spingono gli uomini a temere una forza terribile e spaventosa, irraggiungibile alla ragione, una forza che minaccerebbe l’uomo di sciagure in questa sola vita (com’è il caso nel Buddismo e nell’Ebraismo) o in questa vita e anche dopo la morte (com’è il caso dei cristiani e dell’Islam), così da far tremare i corpi, paralizzare le forze e indurre nelle menti confusione e inerzia[5]. A quel punto tali insegnamenti aprono porte che permettono di salvarsi dai terrori ed entrare in un paradiso di delizie. Ma a controllare quelle porte stanno bramini, sacerdoti, preti e altre figure simili che non permettono alle persone di entrare se prima non li esaltano umiliandosi davanti a loro e se non li arricchiscono con doni votivi o offerte per ottenere il perdono. In alcune religioni si arriva al punto che questi guardiani pretendono di poter impedire alle anime d’incontrare il loro Signore se prima non hanno riscosso da loro delle tasse che permettono loro di uscire dalle tombe o di liberarsi dal purgatorio. Quanto terrore instillano tra la gente questi figuri, a proposito dell’ira di Dio, minacciandoli di sciagure e punizioni che potrebbero abbattersi su di loro, per poi fargli credere che l’unica salvezza e l’unico rimedio consista nel ricorrere agli abitatori delle tombe[6] che avrebbero la familiarità, anzi il potere di proteggere le persone dal castigo divino!
Sempre questi liberi pensatori affermano che i politici edificano il dispotismo su basi simili. Anche loro infatti cercano di terrorizzare la gente con il proprio rango e la propria apparenza superiore e li umiliano a forza, estorcendo loro denaro fino a produrre una completa sottomissione. Ne godono allora come se fossero greggi da cui trarre latte da bere e carne da mangiare, da usare come bestie da soma e di cui menar vanto con gli altri. A loro avviso questa somiglianza nella costruzione e nei risultati dei due tipi di dispotismo, religioso e politico, si riscontra in Francia, fuori Parigi, dove essi agiscono concordi spalleggiandosi a vicenda, e in Russia, dove assolvono la stessa funzione come se fossero carta e penna, con cui decretare una comune miseria alle nazioni. Ancora sostengono che questa somiglianza tra le due forze trascina il volgo, che rappresenta la stragrande maggioranza del popolo, al punto di smarrire la differenza tra il Dio legittimamente adorato e il tiranno ubbidito a forza[7]. A quel punto Dio e il tiranno si confondono nella ristrettezza delle loro menti a causa degli elementi di somiglianza, come il diritto a essere glorificati, il poter fare a meno di domandare, il non dover rendere conto delle proprie azioni. Di conseguenza la gente comune pensa di non aver diritto a controllare il despota, in ragione dell’abisso che separa la sua elevatezza e la loro bassezza. In altre parole il volgo trova molti elementi di comunanza tra il Dio che adora e il tiranno, in fatto di nomi e attributi, sicché ai suoi occhi diventano la stessa identica cosa. Così non sono più capaci di distinguere per esempio tra l’Agente assoluto e l’autocrate, tra Colui a cui «non si chiede conto di quello che fa» (Cor. 21,23), e l’irresponsabile, tra il Benefico e il dispensatore di favori, tra l’Onnipotente e il potente. In tal modo glorificano i tiranni come se fossero Dio, anzi come se gli fossero superiori. Dio infatti è longanime e generoso, ritarda il castigo e lo rimanda, mentre la vendetta del tiranno è immediata e subitanea. [...]
Insomma tutti gli studiosi di politica ritengono che la politica e la religione marciano insieme e che la riforma della religione è la via più semplice, più efficace e più rapida per la riforma politica. Forse i primi a percorrere questa strada, cioè a utilizzare la religione per riformare la politica, furono i saggi della Grecia antica. Essi ebbero l’astuzia di condurre i loro tiranni ad accettare la partecipazione politica insegnando loro la dottrina della partecipazione nella divinità, che avevano preso dagli assiri e che arricchirono dei loro miti[8]. Così diedero alla giustizia un dio, alla guerra un dio, alle piogge un dio, e così via e attribuirono al dio degli dèi il diritto di sovrintendere su di loro e di arbitrare nel caso di divergenze tra loro. Una volta che ebbero radicato questa dottrina nelle menti rivestendola di forme maestose e della magia dell’eloquenza, fu facile per questi saggi spingere la gente a richiedere ai tiranni di rinunciare alla loro condizione di monopolio del potere. La terra doveva essere amministrata come il cielo. E i re furono costretti a cedere, loro malgrado. Fu questo il mezzo più potente con cui i greci riuscirono infine a creare le repubbliche di Atene e Sparta. E lo stesso fecero i romani. Questo esempio antico di divisione del potere nelle monarchie e nelle repubbliche, nelle loro diverse forme, resta valido fino a oggi.
Senonché questo sistema di associare [gli uomini alla divinità], oltre a essere falso in sé, ebbe un effetto molto più dannoso poiché diede ampio spunto agli impostori di tutte le classi sociali per rivendicare per sé alcune caratteristiche divine, come gli attributi della santità o i poteri spirituali. Prima di allora soltanto singoli tiranni isolati avevano osato pretenderli, come Nimrod al tempo di Abramo o Faraone con Mosè[9], ma da quel momento in avanti si fecero avanti schiere di bramini, preti[10] e mistici. E a causa della rispondenza, sotto vari punti di vista, tra questa innovazione corruttrice e la natura umana, rispondenza che non indagheremo in questa nostra ricerca, essa si diffuse, accecò molte persone e arruolò un esercito sterminato a servizio dei despoti.
In quel momento venne la Torah a insegnare l’azione e a salvare gli uomini da una rassegnazione apatica che li aveva portati al punto di domandare a Dio e al suo profeta di combattere al posto loro. Venne e mise ordine nei sogni confusi, togliendo di mezzo la dottrina del politeismo, sostituendo per esempio gli angeli ai numerosi dei. Ma i re della casa di Cohen non seppero accontentarsi del monoteismo e lo corruppero. Giunse allora il Vangelo portando una fonte celeste di dolcezza e longanimità, ma si scontrò con la resistenza di cuori bruciati dal fuoco della crudeltà e del dispotismo. Anche il Vangelo insegnava la legge del monoteismo, ma i suoi primi predicatori non riuscirono a far comprendere a quei popoli decadenti che avevano preso ad accettare il Cristianesimo prima delle nazioni elevate che la paternità e la figliolanza erano due espressioni metaforiche il cui significato la ragione poteva accettare solo in quei termini (e lo stesso vale per la questione della predestinazione che i pensatori islamici ereditarono dalle religioni indiane e dalle favole greche). Così le nazioni accolsero le nozioni di paternità e figliolanza nel senso di un’autentica generazione, perché questo era più accessibile al loro intelletto limitato e restio ad elevarsi al di sopra delle realtà sensibili, e anche perché in precedenza avevano abbracciato la credenza secondo cui alcuni dei loro primi tiranni fossero figli di Dio. Così ora gli risultava pesante attribuire a Gesù – su di lui sia la pace – una posizione inferiore a quella di quei primi re. Poi quando il Cristianesimo si diffuse tra numerosi popoli, si rivestì di vesti non sue, come era accaduto anche alle altre religioni che l’avevano preceduto, e si ampliò con le epistole di Paolo e altri scritti. In tal modo il messaggio si rivestì di abiti e riti pagani, tolti ai romani e dagli egizi, che andarono ad aggiungersi ai riti degli israeliti, nonché di altri miti e di forme della regalità [antica]. In tal modo il Cristianesimo finì per glorificare il clero al punto di credere che esso agisse per conto e al posto di Dio, fosse infallibile e avesse la potestà di legiferare. Tutte cose che da ultimo furono rifiutate dai Protestanti, cioè da quanti si rimettono, nel loro modo di giudicare, al fondamento del Vangelo[11].
Giunse allora l’Islam per purificare Ebraismo e Cristianesimo e distruggere totalmente il politeismo, costruendo sul fondamento della saggezza e della ferma risoluzione e sulle norme di una libertà politica intermedia tra democrazia e aristocrazia. L’Islam diede pieno fondamento al monoteismo ed eliminò ogni autorità religiosa e di usurpazione che pretendeva di giudicare le anime o i corpi; pose la Legge della sua saggezza come norma universale, valida per ogni luogo e per ogni tempo; e diede vita a una società politica naturale nella sua forma più nobile (madīna fitriyya sāmiya). Partorì un governo come quello dei califfi ben guidati, di cui non solo la storia non aveva mai visto nulla di simile, ma che anche tra i musulmani non ebbe successori dello stesso livello, a parte alcuni casi isolati come ‘Umar Ibn ‘Abd al-‘Azīz[12], l’abbaside al-Muhtadī[13] e il martire Nūr ad-Dīn[14]. Quei califfi ben guidati compresero il significato del Corano, che era disceso nella loro lingua, e lo presero a guida del loro agire, dando vita a un governo che decretò l’uguaglianza nelle gioie e nei dolori della vita perfino tra il califfo e i poveri della comunità islamica. Così crearono tra i musulmani sentimenti di fratellanza e vincoli di comunanza sociale che a stento si ritrovano tra fratelli germani che vivano sotto la tutela dello stesso padre e l’abbraccio della stessa madre, affidando a ciascuno il proprio ruolo personale, familiare e comunitario. Tuttavia questo nobile stile di gestione del potere, che è lo stile profetico muhammadico, fu seguito fino in fondo soltanto da Abū Bakr e ‘Umar[15]. Quindi cominciò a scomparire e la comunità musulmana iniziò a rimpiangerlo e reclamarlo, dall’epoca di ‘Uthmān fino a oggi. E continuerà a rimpiangerlo fino al Giorno del Giudizio, a meno che si applichi a recuperarlo con uno stile politico fondato sulla consultazione democratica (tirāz siyāsī shūrī), quello stile a cui sono giunte alcune nazioni occidentali di cui potremmo forse dire con verità che hanno saputo imparare dall’Islam più dei musulmani stessi.
Questo nobile Corano è ricolmo di passi che insegnano a sopprimere il dispotismo e ridare nuova vita alla giustizia e all’uguaglianza, persino nelle sezioni narrative. Tra di essi vi è ad esempio il discorso che Bilqīs regina di Saba, degli arabi Tubba‘[16], rivolge ai nobili del suo popolo: «E aggiunse la regina: “O mia corte, datemi il vostro parere in tale questione, ché nessuna questione deciderò senza che voi ne siate testimoni!” Risposero: “Noi siam gente forte e prodezza grande abbiamo, ma il comando spetta a te: pensa dunque tu a decidere!” Disse la regina: “Quando i re entrano in una città, la devastano, e i nobili suoi riducono a miserabili: così faranno quelli con noi”» (Cor. 27,32-34). Questa storia insegna come i re debbano richiedere il parere dei maggiorenti, cioè dei sudditi più nobili, e non debbano prendere alcuna decisione senza aver ascoltato la loro opinione. Mostra inoltre che la forza e la potenza devono restare in mano ai sudditi, che ai re spetta soltanto la funzione esecutiva e che unicamente in quella misura vanno onorati, svergognando così i tiranni. […] Sulla base di quanto precede non vi è dunque alcuno spazio per accusare la religione islamica di sostenere il dispotismo, come mostrano centinaia di versetti chiari.
[‘Abd al-Rahmān al-Kawākibī, Tabā‘i‘ al-istibdād wa masāri‘ al-isti‘bād (Natura del dispotismo e guasti del servilismo), Kalimāt ‘arabiyya li-l-tarjama wa-l-nashr, al-Qāhira 2011, pp. 7-9, 12-13, 21-26 passim, traduzione dall’arabo di Martino Diez]
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Arabo ‘iliyyūn (cfr. Cor. 83,18-20 e le numerose esegesi proposte al passo).
[2] ‘Abbās II Hilmī (1874-1944) fu l’ultimo khedivè d’Egitto (1892-1914) prima del protettorato britannico.
[3] L’autore intende con Torah l’insieme dell’Antico Testamento.
[4] Per l’Islam i Libri celesti sono la Torah, i Salmi, il Vangelo (al singolare) e il Corano.
[5] «La [religion] giudaica, e quindi la cristiana e maomettana, coll’ammettere un solo dio, assoluto e terribil signor d’ogni cosa, doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide» (Vittorio Alfieri, Della Tirannide, capitolo ottavo “Della religione”, Archivio Guido Izzi, Roma 1985, p. 50).
[6] Al-Kawākibī prende di mira l’intercessione dei pii defunti, secondo la tipica polemica modernista contro il culto dei santi (anche e soprattutto islamici).
[7] «L’idea che dal volgo si ha del tiranno viene talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che se ne potrebbe indurre il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte, ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una idea, qual ch’ella si fosse, della divinità. Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi sempre si son l’una l’altra aiutate» (Vittorio Alfieri, Della Tirannide, p. 50).
[8] «La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegi della corte celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero» (Ibidem).
[9] Nel Corano Faraone afferma, rivolto ai notabili egiziani: «Non sapevo che voi aveste un altro dio fuori che me» (28,88).
[10] L’arabo (bādrī) sembrerebbe essere una trascrizione fonetica dell’italiano “padre”.
[11] È notevole anche qui la consonanza con il testo di Alfieri, sia nella valutazione positiva della Riforma, sia soprattutto nell’accusa al clero di aver deformato l’autentica predicazione di Cristo. Su questo secondo punto messaggio coranico e critica protestante/illuministica s’incontrano perfettamente. «I troppi abusi di essa [religion cristiana] sforzarono col tempo alcuni popoli assai più savi che imaginosi, a raffrenarla, spogliandola di molte dannose superstizioni. E costoro, distinti poi col nome di eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla libertà, la quale fra essi rinacque dopo essere stata lungamente sbandita d’Europa, e bastantemente vi prosperò […]. Ma i popoli, che, non la frenando, vollero conservarla intera (non però mai quale era stata predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l’aveano i suoi successori trasfigurata), si chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà» (Vittorio Alfieri, Della Tirannide, p. 52).
[12] Califfo omayyade noto per la sua pietà, regnò dal 717 al 720.
[13] Califfo abbaside, cercò di riportare ordine nella corte, ma regnò per meno di un anno, dall’869 all’870.
[14] Emiro di Aleppo al tempo delle Crociate, noto in Europa come Norandino (1118-1174), guidò la resistenza contro i franchi.
[15] Il califfato di Abū Bakr si estende dal 632 al 634, quello di ‘Umar dal 634 al 644. ‘Uthmān fu califfo dal 644 al 656, ma i suoi 12 anni di regno sono tradizionalmente divisi in sei buoni e sei cattivi. Si noti quindi quanto breve sia l’epoca d’oro dell’Islam nella ricostruzione idealizzata di al-Kawākibī, che peraltro su questo punto non fa che riprodurre il pensiero sunnita classico.
[16] Termine con cui le fonti arabi chiamano la dinastia preislamica degli Himyariti, che resse lo Yemen dal terzo al sesto secolo d.C.