Nell’Islam classico si parla di libertà? La risposta è, senza dubbio alcuno, sì. Ma non nelle discipline che verrebbe istintivo immaginarsi
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:31:28
Nell’Islam classico si parla di libertà? La risposta è, senza dubbio alcuno, sì. Ma non nelle discipline che verrebbe istintivo immaginarsi. Il termine infatti non occupa grande spazio nei trattati classici di giurisprudenza o di teoria politica, dove l’accento è posto piuttosto sui diritti di Dio e sulla giustizia del sovrano. È invece centrale nella riflessione teologica delle prime generazioni di musulmani. L’uomo è libero? Oppure è “costretto” dall’onnipotenza divina, che lo predestìna all’inferno o al paradiso? A questa domanda la nascente comunità islamica darà risposte antitetiche, fin dall’epoca del califfato omayyade (661-750), quando presero forma le due scuole della Jabriyya, predestinazionista, e della Qadariyya, sostenitrice del libero arbitrio.
Il dibattito sul volere divino
Tra i numerosi testi dedicati al tema, abbiamo scelto di tradurre l’Epistola ad ‘Abd al-Malik, attribuita a Hasan al-Basrī. Nato a Medina verso il 642, Hasan morì a Basra nel 728 ed è sepolto nella vicina al-Zubayr. Figura di grandissimo peso nella seconda generazione dei musulmani, Hasan è un asceta particolarmente venerato dai sufi, che lo considerano un anello fondamentale nella trasmissione del sapere mistico, ma è universalmente apprezzato, tanto dai sunniti quanto dagli sciiti, per i suoi detti memorabili, ispirati al timore di Dio e al disprezzo del mondo. Nel testo, che traduciamo integralmente a partire dalla più breve fra le tre recensioni attestate, il califfo omayyade ‘Abd al-Malik (r. 685-705) scrive con la schiettezza tipica dei primi musulmani al venerato asceta per chiedergli di discolparsi da alcune voci che lo volevano teorizzatore del libero arbitrio. E con altrettanta schiettezza Hasan risponde, ammonendo il califfo ad attenersi ai versetti coranici che descrivono Dio come giusto e l’uomo come responsabile dei propri atti. «Non attribuirGli – ingiunge Hasan al califfo – se non quanto Egli accetta Gli sia attribuito, poiché ha detto: “Noi siamo che guidiamo. Noi teniamo in pugno la vita futura e la prima!” La guida viene dunque da Dio, e l’erranza dagli uomini».
In realtà, come ha dimostrato Suleiman Mourad[1], l’Epistola è un falso, composto verso l’anno 1000 da un anonimo autore mu‘tazilita, appartenente cioè alla scuola teologica che, ereditando le posizioni della Qadariyya, più di tutte difese nell’Islam il libero arbitrio dell’uomo, prima di essere sconfitta sul piano politico e finire relegata in alcune regioni periferiche del mondo musulmano, in particolare lo Yemen, centro principale di una forma di sciismo moderato nota come zaydismo. Il pensiero mu‘tazilita ha comunque lasciato ampie tracce di sé anche nello sciismo maggioritario (duodecimano).
La natura apocrifa del testo non deve stupire: l’attribuzione a grandi autori del passato è molto comune nella letteratura medievale, islamica e non-islamica. Basti pensare al caso degli hadīth, le tradizioni di Muhammad, di cui una parte non irrilevante è certamente spuria. A questa constatazione generale si aggiungono poi due ragioni specifiche che giustificano la scelta di questo scritto. In primo luogo l’Epistola al califfo ‘Abd al-Malik è, molto semplicemente, un testo bello, che riassume in modo particolarmente felice le principali argomentazioni sviluppate dal pensiero mu‘tazilita a favore del libero arbitrio. In secondo luogo il trattato, dopo essere stato riscoperto nel 1933 dall’islamologo tedesco Hellmut Ritter, che lo considerava autentico, ha goduto di una certa notorietà nel mondo islamico contemporaneo, soprattutto per il fatto di essere stato incluso in una serie di Trattati sulla giustizia e sul monoteismo editi dall’influente pensatore islamista Muhammad ‘Imāra (1931-).
Un vescovo trilingue
La riflessione teologica islamica su libero arbitrio e predestinazione non è nata e non si è sviluppata in un vuoto culturale. Al contrario, essa è uno degli ambiti in cui è più probabile un influsso della teologia cristiana. Influsso che va tuttavia indagato nelle due direzioni, come mostra l’opuscolo La libertà di Teodoro Abū Qurra, vescovo di Harran, l’antica Carre. Quello che è oggi un modesto villaggio a poche centinaia di metri dal confine turco-siriano fu nei primi tempi dell’Islam un centro culturale di primaria importanza, caratterizzato dalla presenza di comunità pagane, manichee, cristiane di varie confessioni e naturalmente musulmane. Nato probabilmente a Edessa verso il 775 e morto dopo l’829, Teodoro assunse la guida della piccola comunità melkita della città[2]. Fedele al concilio di Calcedonia, è uno dei primi pensatori cristiani a occuparsi seriamente di Islam, molto più del suo predecessore San Giovanni Damasceno, con cui è talvolta posto in relazione. Conosce ancora il greco e il siriaco, ma preferisce scrivere in arabo.
L’opuscolo sulla libertà, probabilmente giovanile, si presenta come una confutazione dei manichei, a cui è dedicata la sezione centrale, ma mette in scena anche un anonimo partigiano della predestinazione che non può che essere un musulmano aderente alla scuola della Jabriyya. Gli argomenti che Teodoro impiega per confutarlo – per esempio la questione della “scusa” di cui Dio andrebbe in cerca per motivare la condanna dei predestinati all’inferno – sono in buona misura identici a quelli che saranno discussi dai mu‘taziliti, prove scritturali a parte, poiché ovviamente Teodoro argomenta a partire dalla Bibbia, mentre i mu‘taziliti si fondano sull’autorità del Corano. Ma, come detto, l’influsso è visibile anche nella direzione opposta, perché Teodoro adotta integralmente il metodo dei pensatori islamici a lui contemporanei. «Se poi tu dici – scrive sagacemente il vescovo di Harran rivolgendosi a un immaginario partigiano della predestinazione – “Dio è giusto, anche se fa questo”, noi ti replichiamo: “Dio è giusto, proprio perché non fa questo”». È la tipica argomentazione dialettica del kalām, la teologia musulmana: in questa fase formativa della civiltà islamica, le varie comunità religiose del Vicino Oriente si parlavano e si frequentavano e Teodoro Abū Qurra non fa eccezione.
La vittoria della predestinazione
Il Corano, oltre ai versetti favorevoli al libero arbitrio citati dallo (pseudo-) Hasan al-Basrī, contiene peraltro anche diversi passi che insegnano l’ineluttabilità del decreto divino. Due sono in particolare le metafore utilizzate: il suggello che Dio pone sui cuori dei peccatori, secondo un’immagine ben nota anche all’Antico Testamento, e lo scritto che contiene da sempre le azioni degli uomini. Di qui la difficoltà ad armonizzare le due prospettive.
Ma nettamente predestinazionisti sono soprattutto gli hadīth, non a caso assenti dalla discussione dall’Epistola ad ‘Abd al-Malik. A partire dal IX secolo essi assumeranno un ruolo centrale non solo nel diritto, ma anche nella teologia. Il risultato sarà la sostanziale vittoria, in ambito sunnita, del partito della predestinazione. Nonostante qualche distinguo – il salafita Ibn Taymiyya (1263-1328) ad esempio, o la scuola teologica maturidita in Asia Centrale – il clima spirituale finirà così per essere dominato dalla convinzione del predominio assoluto del volere divino, per quanto temperata dalla fede nella misericordiosa disposizione di Dio verso i suoi servi. Così nel XV secolo il teologo as-Sanūsī potrà scrivere icasticamente – ma terribilmente – che «l’uomo è un essere costretto sotto l’apparenza di un essere libero»[3].
Dal Piemonte alle rivolte del 2011
In questa discussione il nesso con la politica c’è tutto fin dall’inizio. Già ai califfi omayyadi infatti risultava ben chiaro che la fede nella predestinazione poteva favorire il quietismo politico, mentre la dottrina del libero arbitrio stimolava l’idea della responsabilità personale, anche dei governanti. Ed è proprio quest’ultimo tema che, con un balzo di un millennio, assume una nuova centralità nel pensiero arabo contemporaneo, a partire dalla figura di ‘Abd al-Rahmān al-Kawākibī.
Nato ad Aleppo verso il 1853/1854 da una famiglia di notabili, al-Kawākibī aderisce fin da giovane al movimento riformista che percorre in quegli anni l’impero ottomano e nel 1877 apre il primo settimanale di Aleppo, che però il governo chiude dopo appena sedici numeri. Un secondo tentativo nel 1879 ha vita ancora più breve. Il contrasto con le autorità ottomane si acuisce negli anni successivi fino all’arresto e alla confisca dei beni. Nel 1898 o 1899 al-Kawākibī decide così di abbandonare la Siria e dopo una serie di viaggi che lo conducono fino in India, si stabilisce stabilmente in Egitto, all’epoca sotto occupazione britannica. Pubblica una serie di articoli, spesso sotto lo pseudonimo – kafkiano verrebbe da dire – di Rahhāla Kāf, “Viaggiatore K.”, che poi raccoglie e sistematizza in due libri: Tabā’i‘ al-istibdād, “la natura del dispotismo”, da cui è tratto il brano che proponiamo, e Umm al-Qurā, “la madre delle città”, che propone l’istituzione di un califfato arabo alla Mecca.
Concepito già in Siria, Tabā’i‘ al-Istibdād è pubblicato per la prima volta nel 1901 sull’importante rivista riformista al-Manār, diretta da un altro siriano in esilio, l’influente Rashīd Ridā (1865-1935). Nel 1902 ne esce la seconda e definitiva edizione. Anche se nella prefazione al-Kawākibī afferma di non voler prendere di mira un tiranno o una nazione in particolare, il libro è subito letto come un attacco al sultano di Costantinopoli. L’autore muore poco dopo, nel giugno 1902, forse avvelenato da agenti ottomani.
Notevole nell’opera di al-Kawākibī è, oltre allo stile già moderno e giornalistico – ovviamente del giornalismo di fine Ottocento – la vastità dell’orizzonte. Il pensatore aleppino infatti non si rifà solo alla storia islamica, ma nella sua analisi del dispotismo spazia dai miti greci ai sumeri e al buddismo, oltre naturalmente alla civiltà occidentale moderna. Questa natura composita dei riferimenti è in realtà caratteristica di tutto il pensiero del Risorgimento arabo, che si apre con avidità al confronto con le altre culture, prima fra tutte quella europea. Nel caso di al-Kawākibī è poi filologicamente dimostrato che un ruolo fondamentale nella formulazione finale del suo pensiero fu giocato dall’opera Della Tirannide del piemontese Vittorio Alfieri (1749-1803), che l’intellettuale siriano conobbe probabilmente in una traduzione turca stampata con il titolo proprio di istibdād a Ginevra nel 1898[4]. Altra fonte sicura è il socialista francese Charles Fourier (1772-1837) per alcune parti del capitolo su dispotismo e denaro.
Dall’Alfieri della Tirannide al-Kawākibī trae una cospicua vena anticlericale e anticattolica. Ma mentre per il pensatore piemontese l’Islam rappresentava la quintessenza del dispotismo religioso “orientale”, al-Kawākibī ritorce questa accusa contro il Cristianesimo e il Cattolicesimo in particolare, distinguendo tra un Islam del Profeta e dei suoi primi Compagni e la lunga storia della progressiva corruzione di questo ideale. Una storia che – avverte al-Kawākibī – continuerà ininterrotta «fino al Giorno del Giudizio, a meno che si applichi […] uno stile politico fondato sulla consultazione democratica, quello stile a cui sono giunte alcune nazioni occidentali di cui potremmo forse dire con verità che hanno saputo imparare dall’Islam più dei musulmani stessi». Muhammad ‘Abduh in pillole; e non a caso con il riformista egiziano al-Kawākibī condivide la medesima lettura della civiltà occidentale.
Malgrado la natura occasionale dei suoi scritti, al-Kawākibī conoscerà una fortuna sempre crescente, finendo rivendicato dalle più svariate correnti: democratici, socialisti, comunisti, ma anche nazionalisti arabi – per via della sua proposta di ristabilire uno Stato arabo unitario – e islamisti. E come al-Kawākibī e ‘Abduh prima di lui, la maggior parte dei suoi emuli ricorrerà al fallace argomento che vuole il dispotismo religioso strutturalmente impossibile in terra musulmana, perché l’Islam, quantomeno l’Islam autentico delle origini, “non ha clero”, come sarà ripetuto fino alla nausea. Dimenticando che il dispotismo religioso e la teocrazia possono sussistere tranquillamente anche senza un clero organizzato, questi autori si precludevano la possibilità di pensare veramente il rapporto tra religione e libertà civile.
Da quel giugno 1902 in cui al-Kawākibī scompariva repentinamente, tanta acqua è passata sotto i ponti, ma i nodi teorici toccati nella sua opera restano ancora irrisolti, come ha rivelato la difficoltà delle Primavere arabe a passare dalla contestazione alla creazione di una vera alternativa politica. Con tutto il rispetto per «quel grande / che, temprando lo scettro a’ regnatori, / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (così Ugo Foscolo nei Sepolcri), il mondo arabo merita più di Vittorio Alfieri. Merita per esempio di tornare a riflettere sul tema della libertà umana, perché senza un’adeguata antropologia la liberazione politica resterà illusoria. Forse – come al tempo di Teodoro Abū Qurra e della Mu‘tazila – è giunto il momento di riprendere questa conversazione islamo-cristiana. E se possibile senza più passare attraverso il filtro deformante del modernismo ottocentesco.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Suleiman Ali Mourad, Early Islam between Myth and History. Al-Ḥasan al-Baṣrī (d. 110H/723CE) and the Formation of His Legacy in Classical Islamic Scholarship, Brill, Leiden-Boston 2006, in particolare cap. 6, pp. 176-239.
[2] Tra i molti studi si veda John C. Lamoreaux, Theodore Abu Qurrah, Brigham Young University Press, Provo (UT) 2005.
[3] Essenziale per la comprensione di questo dibattito resta Louis Gardet, Dieu et la destinée de l’homme, Vrin, Paris 1967, trattato primo, pp. 33-139.
[4] Cfr. Sylvia G. Haim, Alfieri and al-Kawākibī, «Oriente Moderno» 34 (1954), n. 7, pp. 321-334 e Ettore Rossi, Una traduzione turca dell’opera “Della Tirannide” di V. Alfieri probabilmente conosciuta da al-Kawākibī, Ibidem, pp. 335-337. Dispiace che la recente traduzione francese (Sindbad 2016) non faccia parola di questa parentela.