Un celeberrimo canto folkloristico iracheno, un testo composto intorno agli anni ’20, ma che, come ogni classico che si rispetti, non ha perso di attualità. Lo canta Ilham al-Madfai, uno dei giganti del cantautorato arabo contemporaneo.

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 11:50:47

La ricca biografia di Ilham al-Madfai, il cui (vero) nome potrebbe essere poeticamente tradotto come “l’ispirazione dell’artigliere”, è inscindibilmente legata alle instabili vicende del suo Iraq, visitato proprio in questi giorni da Papa Francesco.

 

Figlio di una prestigiosa famiglia d’origini curde, verso i 10 anni, nella celebre scuola Najīb Bāshā di Baghdad, Ilham si distingue subito per il suo talento musicale (in quel periodo, sugli stessi banchi di scuola, c’erano personaggi del calibro di Iyad Allawi e Layla al-Attar). Ventenne, fonda la Bingo Band e i Twisters (1961, definita poi la prima rock band irachena, dai pioneristici e controversi suoni moderni), con cui si sposta in Kuwait. Trasferitosi in seguito a Londra per studi, si esibisce regolarmente alla famigerata Baghdad House, al 140 di Fulham Road, dove incontra, tra la crème de la crème hippie londinese, il beatle Paul McCartney e acquista lui stesso il soprannome del “beatle di Baghdad”. Di ritorno nella sua città natale (1967) si afferma tra il grande pubblico iracheno con la sua nuova band 13½, dallo stile fusion di chitarra “occidentale” con temi e melodie tradizionali arabe-irachene. Con l’ascesa di Saddam Hussein (1979) e la censura di alcune sue canzoni, l’artista sceglie di allontanarsi dall’Iraq e dai suoi otto anni di guerra (Iran-Iraq, 1980-1988). Dopo dieci anni passati a lavorare come ingegnere nel Golfo, ritorna a Baghdad, a pochi mesi dalla prima guerra del Golfo (1990-1991). Tenta di fondare una nuova band (“Il gruppo di Ilham”), ma l’instabilità politica e una censura soffocante lo spingono a stabilirsi definitivamente in Giordania (1994), dove tuttora vive e suona.

 

Ponte tra sonorità diverse e tra il pubblico iracheno e la sua diaspora, Ilham è celebre per la sua versatilità (vogliamo parlare della sua versione di Marina?!) e le sue esibizioni lunghissime (3 ore di concerto in Egitto, 7 a Beirut).

 

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La canzone di oggi non è né la celebre Khuttār, né la nostalgica Baghdād, né la dolce al-Tuffāh (tutte consigliatissime!) e neppure la sua ultima composizione, dedicata al grande calciatore iracheno Ahmed Radhi, morto per Covid-19 pochi mesi fa.

 

Il classico di oggi è due volte tale: un celeberrimo canto folkloristico iracheno (qui una versione più datata e un po’ più impegnativa dell’intramontabile Yusuf Omar e qui una versione più recente di Hamza Namira) interpretato egregiamente da uno dei giganti del cantautorato arabo contemporaneo (qui un live del 1997).

 

Il testo, squisitamente “iracheno” e criptico anche a molte persone arabofone che ignorano la storia dietro queste parole, è un lamento politico anonimo, composto intorno agli anni ’20: un grido di dolore e un inno alla volontà irachena di liberarsi sia dal potere ottomano (i turbanti rossi, come il melograno) che dall’impero britannico (i cappelli d’un giallastro pallido, come certi limoni), intervenuto per “liberare” l’Iraq. Anche a voi suona familiare questa retorica? Beh, ma non è proprio questa la forza dei classici?

 

Buon tarab!

 

Canzone: Chalchal ‘alayhi al-rummān

Artista: Ilhām al-Madfa‘ī

Data di uscita: -

Nazionalità: Iraq

 

 

 

Il melograno mi ha coperto[1]

 

Quando il melograno mi ha ricoperto del tutto,

Il limone[2] è venuto a salvarmi.

Ma io sto belloccio qua non lo voglio!

Fammi stare con la mia gente!

 

Quanto ancora dovrò rimanere in pena,[3]

Aspettandola qui, sul sentiero?

Né è venuta a visitarmi

Né il suo cuore si è spezzato (per me!)[4]

 

Mamma, basta aspettare! Lascia stare!

Non abbandonerò mai il mio amore,

la tua attesa è inutile![5]

 

Lo scialle della mia amata mi è irraggiungibile

Miei cari! Prendetelo al posto mio!

E tu, in piedi davanti a casa, cosa vuoi?[6]

 

O donne oppresse![7]

andate da al-Kāzim[8]

Là, dal signore di tutti i signori,

liberate il vostro dolore![9]

 

 

چلچل عليّ الرمّان

 

چلچل عليّ الرمّان

نومي فزعلي

هذا الحلو ما أريده

ودّونـي لأهلي

 

چلچل عليّ الرمّان

نومي فزعلي

هذا الحلو ما أريده

ودّونـي لأهلي

 

كم دوب أظل ملهوف وأقعد بدربه

كم دوب أظل ملهوف وأقعد بدربه

لا مرّ علي وفات ولا انكسر قلبه


يا يمّه لا تنطرين بطلي النطارة

يا يمّه لا تنطرين بطلي النطارة

ما أجوز أنا من هواي وماكو كل چاره

 

ما أطوْل شال الزين شيلوه يا أهلنا

ما أطوْل شال الزين شيلوه يا أهلنا

ومقابلين الدار شنهو شغلنا

 

كلچن يا مظلومات

للكاظم امشن

وعند سيد السادات

فكن حزنچن

 


[1] Chalchal è un termine arabo colloquiale iracheno che può essere tradotto con “ricoprire”, “avvolgere totalmente”, “oscurare la vista”, “avviluppare”. Si riferisce, in questo contesto, ai fitti rami della pianta di melograno che avvolgono, coprendolo, il cantante. Come accennato, il rosso della melagrana simboleggia il colore dei fez ottomani, il cui potere “avviluppava” da secoli l’Iraq.
[2] Come accennato, il limone indica qui l’impero britannico, intervenuto per “salvare” l’Iraq.
[3] Malhūf, indica un desiderio penoso, languido, struggente, accorato. Dal verbo lahifa, provare rimpianto e desiderare qualcuno che si è perduto.
[4] Il motivo dell’amore perduto (si noti il maschile, come tipico della poesia araba) e del dolore di questa perdita si intreccia con il lamento politico di una patria in balia di influenze esterne e, per il momento, irraggiungibile.
[5] Mākū kull chāra, espressione irachena che significa “è inutile”, “non ha senso”. Questi versi sono spesso interpretati come un risoluto addio ai proprio cari per unirsi alla resistenza contro il nemico invasore. In altre versioni, al posto di “non abbandonerò il mio amore”, il testo recita: “farò quello che voglio” (wa-illī urīdhu īsīr).
[6] Benché il testo, qui molto criptico, possa essere tradotto in diversi modi, resta chiara la metafora di una patria irraggiungibile e di un invasore che attende già fuori casa.
[7] Sottointeso: oppresse dalle ingiustizie.
[8] Mūsā al-Kāzim (d. 183/799), qui onorificamente chiamato “il signore di tutti i signori” è stato il settimo imam sciita duodecimano, la cui storia personale fu scandita da lutti, conflitti, ingiustizie, prigionie, grandi pene e una morte violenta. Il suo mausoleo si trova a Baghdad ed è un’importante meta di pellegrinaggio e venerazione (in questo caso, per cercare consolazione dal dolore e dalle ingiustizie subite).
[9] Il testo di questa canzone presenta numerose varianti. Aggiungiamo qui una strofa spesso inclusa negli spettacoli dal vivo. Si noti ancora una volta il carattere popolare e squisitamente iracheno del testo, sia a livello fonetico che nei riferimenti culturali.

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