L’11 febbraio 1979 veniva proclamata la vittoria della rivoluzione che in Iran depose lo Shah. Un’analisi storica delle cause e dei protagonisti che hanno cambiato il Medio Oriente
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:05
Šāh raft, Imām āmad, questa è la frase che meglio cattura l’essenza più profonda degli avvenimenti che ebbero luogo rispettivamente il 16 gennaio e l’1 febbraio del 1979 aprendo la strada, l’11 febbraio di quello stesso anno, a quella che sarebbe divenuta la Repubblica Islamica d’Iran. Un sovrano stanco e malato abbandonava l’Iran, mettendo fine alla dinastia Pahlavi il cui fondatore, Reza Khan, s’ispirava alla repubblica kemalista di Turchia e fu spinto proprio dal clero a prendere la corona. Un energico Ayatollah già avanti negli anni si presentava come il simbolo del nuovo Iran, leader inatteso di una rivoluzione dalle molte facce, figlia di un processo di modernizzazione autoctono, che aveva avuto inizio nei primi anni del Novecento per poi dipanarsi in mille puntuali eventi.
Una rivoluzione imprevista e forse imprevedibile, dominata dalla figura carismatica di Ruhollah Khomeini, sua guida incontrastata. Una rivoluzione scandita dai ritmi stessi della religione, costruita su manifestazioni che rispettavano le cadenze rituali, i giorni di rispetto dei lutti dei martiri, gli slogan che inneggiavano a Dio. Ricordo ancora il clima di quei frenetici giorni che seguirono la nascita della Repubblica Islamica. Nei primi mesi la rivoluzione pulsava di mille anime in disordinato movimento, spesso in contrasto, comunque tese a un futuro migliore. Poi, dopo la presa dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America il 4 novembre successivo, tensione e preoccupazione, crescente isolamento internazionale, stato di conflitto permanente. Infine l’aggressione dell’Iraq guidato da Saddam Hussein, che immaginava un Iran troppo diviso per reagire e volle cogliere l’occasione per conquistare il controllo dello Shat al-Arab e dei campi petroliferi del Khuzistan iraniano. Il 22 settembre 1980 il dittatore iracheno ordinò alle sue truppe di marciare sui confini dell’Iran, cambiando così la storia della neonata Repubblica e invero dell’intero Medio Oriente. La guerra che seguì fu solo la prima di un’ininterrotta scia di sangue che giunge ai giorni nostri.
Fazlollah Nouri e la Rivoluzione Costituzionale
Andiamo però con ordine. Le più antiche radici culturali e religiose di quanto accaduto affondano nelle pianure di Karbala dove il terzo Imam sciita Hussein trovò la morte, o forse ancor più indietro nelle prodigiose capitali degli imperi persiani dell’antichità, dove si formò l’identita iranica, un sentimento di essere nazione che ancora oggi pervade la politica del Paese. Più semplicemente, le radici politiche della Rivoluzione vanno ricercate negli eventi degli anni della Rivoluzione Costituzionale, tra il 1906 e il 1909, e in particolar modo nella figura di un eminente esponente del clero, Sheikh Fazlollah Nouri (Šeikh Fażl-allāh Nūrī), che giocò un ruolo importante in questi eventi, prima promotore del movimento, poi fautore della restaurazione monarchica, infine condannato a morte quando i costituzionalisti tornarono al potere. La Rivoluzione Costituzionale consacrò la nascita dell’alleanza tra clero e bazar, che univa tratti di marcata conservazione con aspirazioni riformiste e sinanche sinceramente democratiche. Fazlollah Nouri, uomo di non comuni qualità, diede voce alle convinzioni del clero, contestando la legittimità del Parlamento a legiferare in mancanza del consenso dei giurisperiti. Questa posizione può far sorridere il moderno lettore occidentale, per il quale vale la famosa espressione reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo dei Vangeli sinottici, ma pone un problema profondo e serio in ambito musulmano e soprattutto sciita, dove il clero interpreta le tradizioni anche in chiave legale ed esercita una maggiore autorità sulle scelte dei fedeli. Pur essendo tra i suoi primi leader, Nouri si staccò presto dal movimento costituzionalista, non condividendo la richiesta di creare un Parlamento (majles), cui egli continuava a preferire la nascita di una “Casa della Giustizia” (ʿadālat-khāna), composta da rappresentanti delle varie corporazioni, che avrebbe dovuto assicurare il rispetto della shari’a (Šarīʿa). Non è un caso che Khomeini abbia sempre considerato Nouri come colui che diede per primo voce alle aspirazioni politiche del clero iraniano, sostenendo la preminenza della giurisprudenza religiosa sulle scelte politiche. La Rivoluzione Costituzionale fu in qualche modo sostenuta dall’Impero britannico, che ospitò i contestatori nei giardini dell’ambasciata, ma è qui necessario ricordare che il nazionalismo era già allora un importante elemento dell’ideologia di quanti si ribellarono anche al dominio delle potenze coloniali, Russia e Gran Bretagna, padrone l’una del nord, l’altra del sud del Paese. Nazionalismo che sarebbe stato la bandiera di Reza Khan, che iniziò la carriera come sergente nell’esercito qajar, per poi comandare la brigata dei Cosacchi scalando le gerarchie sino a diventare sovrano, e ancora di suo figlio Mohammad Reza, il quale nel 1971 celebrò a Persepoli un’irreale e teatrale rappresentazione dei 2500 anni della monarchia persiana.
Il testimone di Fazlollah Nouri fu raccolto da Ruhollah Khomeini, che nel 1970, mentre in esilio a Najaf, tenne dal 21 gennaio all’8 febbraio una serie di 19 lezioni nel corso delle quali sviluppò e descrisse il concetto di Hokumat-i Islāmī “Governo islamico”, basato sul Velāyat-i Faqīh, l’autorità del giurisperito, concetto che sarebbe poi entrato nella Costituzione della nascente Repubblica Islamica d’Iran. Rivoluzione non da poco per la dottrina sciita, che riconosceva l’autorità al solo dodicesimo Imam, nascosto in attesa degli ultimi giorni. Posizione che si scontrò con quella dei maggiori marājī (pl. di marjaḥ “fonte d’imitazione”) sciiti, leader di un clero che era sempre stato in maggioranza quietista.
Eppure allo scoppio della Rivoluzione pochi si sarebbero aspettati l’esito che infine ebbe. Questo perché l’islamismo tradizionale era solo una delle tante componenti del movimento rivoluzionario, cui partecipavano nazionalisti eredi di Mossadeq, sinistra islamica ispirata da Ali Shariati (Alī Šarīʿatī), Partito Tudeh (Ḥezb-i Tūdeh-ye Irān), legato all’Unione Sovietica, nelle cui file militò Jālal Āl-i Ahmad (1923-1969), vigoroso scrittore noto per aver reso famoso il termine Gharbzadegi “Occidentosi”, esponenti della classe media delusi dalla mancata realizzazione delle promesse dello Shah, conservatori contrari alla modernizzazione voluta da Mohammad Reza, studenti di ritorno dalle università americane ed europee e tanti altri ancora. Una considerevole parte delle sinistre occidentali guardò alla Rivoluzione con occhio benevolo, cogliendo gli aspetti di contrapposizione agli USA e all’URSS, senza però comprendere sino in fondo i tratti contrari alla modernità. Gharbzadegi, termine coniato dal filosofo Ahmad Fardid negli anni Quaranta, acquista un nuovo significato grazie ad Āl-i Ahmad, quando descrive la passiva accettazione dei valori occidentali e la parallela inevitabile perdita di quelli tradizionali che investì la società iraniana con la sola eccezione dell’ambito religioso. In questa nuova accezione diviene asse portante dell’ideologia rivoluzionaria e chiave necessaria per comprendere gli eventi.
La rimozione di Mossadeq
La seconda metà del Novecento vide un altro episodio tale da incrinare profondamente la fiducia degli iraniani nel sistema internazionale. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale Reza Shah, sospettato di simpatie tedesche, fu costretto ad abdicare in favore del giovane figlio Mohammad Reza. Dopo alcuni anni divenne Primo Ministro Mohammad Mossadeq, espressione delle élite guidate da un forte sentimento nazionale. Quest’abile politico ha presieduto due governi, separati dal breve intermezzo di Ahmad Qavam, tra il 28 aprile del 1951 e il 19 agosto del 1953, rendendosi protagonista di una coraggiosa sfida alle potenze occidentali e alle “sette sorelle” che allora dominavano incontrastate il mercato degli idrocarburi. Prestigioso avvocato, esponente dell’antica nobiltà qajar, politico dalle abitudini stravaganti, Mossadeq riuscì a nazionalizzare l’industria petrolifera iraniana, rafforzando così l’indipendenza del Paese. Abbandonato dall’Ayatollah Kashani (Abulqāsim Muṣtafavī Kāšānī), antico alleato, il Primo Ministro cadde per le pressioni britanniche e americane, che con l’Operazione Ajax riportarono al potere Mohammad Reza Shah, che anche allora, come avverrà con esiti ben diversi nel 1979, aveva lasciato il Paese in attesa di tempi migliori.
La Rivoluzione fu certo figlia della delusione seguita al fallimento dell’esperimento condotto da Mossadeq, fallimento causato da Gran Bretagna e Stati Uniti, che ancora bruciava nelle carni dei molti nazionalisti. Fu figlia forse anche della deposizione di Reza Shah alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sentita come l’ennesima ingerenza. Fu certamente figlia della mancata comprensione da parte di Mohammad Reza del suo stesso Paese, unita a un’irrefrenabile ambizione, direi quasi megalomania, che lo portarono a voler modernizzare l’Iran senza tener in alcun conto desideri, bisogni e credenze della grande maggioranza del popolo iraniano. Esempi di questa mancanza di comprensione furono certo i festeggiamenti per i 2500 anni della monarchia, ma anche i festival di arte contemporanea che si tennero a Shiraz dal 1967 al 1977 per volere di Farah Pahlavi, rivolti all’élite occidentalizzata del Paese e ai molti stranieri che allora affollavano l’Iran, ma assolutamente incomprensibile ai molti ancora legati alle tradizioni.
Due eventi cambiano il corso della Rivoluzione
Senza la presa dell’Ambasciata americana da parte degli studenti della linea dell’Imam e soprattutto senza la sciagurata, sanguinosa guerra voluta da Saddam Hussein, la Rivoluzione avrebbe forse potuto prendere un’altra via. Nei diciotto mesi trascorsi dal febbraio 1979 al settembre 1980 molte diverse tendenze si sono confrontate e scontrate in un clima che spesso sfociava nella violenza. Alcune formazioni, quali i Mojaheddin-e Khalq e i Fedayn-e Khalq, non disdegnarono la violenza e furono a loro volta vittime di una feroce rappresaglia. Il Tudeh rimase più a lungo sulla scena politica, collaborando all’inizio con il Partito Repubblicano Islamico, ma già nel 1982 fu messo al bando e negli anni immediatamente successivi i suoi maggiori esponenti confessarono pubblicamente il “tradimento” compiuto per compiacere l’Unione Sovietica. Anche la sinistra islamica, più direttamente influenzata dal pensiero di autori quali Ali Shariati perse allora terreno, pur restando all’interno del sistema con una qualche capacità d’influenzare gli sviluppi.
A un punto di svolta
Khomeini vinse la partita grazie al personale carisma, al maggior radicamento del clero sul territorio, all’abilità del gruppo a lui più vicino tra cui si contano personalità che avrebbero dominato la politica iraniana nei decenni a venire. Tra questi vi erano, solo per menzionare i cinque fondatori del Partito Repubblicano Islamico: Mohammad Javād Bāhonar, Mohammad Beheštī, Abd-al-Karīm Mūsavī Ardabīlī, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, Ali Khamenei. I primi due morirono il 29 giugno del 1981 nel sanguinoso attentato alla sede del PRI che fece 70 vittime, il terzo fu un influente leader religioso e capo del potere giudiziario. Gli ultimi due sono gli indiscussi protagonisti degli ultimi quarant’anni di storia iraniana. Hashemi Rafsanjani fu stretto collaboratore di Khomeini, Presidente della Repubblica e regista di molte scelte politiche d’importanza fondamentale. Ali Khamenei è succeduto a Khomeini come guida della Rivoluzione Islamica ed è ancor oggi l’indiscusso dominus della politica di questo Paese. Oggi, a quarant’anni dalla Rivoluzione siamo a un punto di svolta. Dei cinque fondatori del Partito Repubblicano Islamico uno solo rimane in vita; similmente, meno di una decina dei grandi protagonisti degli eventi del 1979 sono ancora attivi polticamente. Una nuova generazione si sta facendo avanti per raccoglierne l’eredità. Una generazione che si è formata nei lunghi anni della guerra, la cui solidarietà e capacità di far gruppo è maturata allora e che ora si sente pronta per gestire il potere. Il primo esponente di questa nuova élite a prendere il potere è stato Mahmud Ahmadinejad, le cui strategie politiche hanno spesso sollevato critiche. Di questa generazione fanno parte persone tra loro molto diverse, con diverse visioni politiche, tra i quali si contano politici, militari, manager alcuni dei quali d’indiscussa qualità e notevole esperienza internazionale. Un gruppo dirigente ancora poco conosciuto, i cui confini si vanno definendo a poco a poco; proprio per questo oggi non possiamo sapere dove porteranno il Paese. Di certo, si spenderanno per garantire continuità alla Repubblica Islamica, pur nella prospettiva di cambiamenti anche incisivi.