In seguito ai fallimenti delle esperienze nazionaliste laiche in Paesi come Egitto e Iran, a partire dagli anni ’70 le componenti radicali dell’uno e dell’altro gruppo hanno conosciuto grande notorietà ed esercitato notevole influenza. La diversa concezione di jihad e martirio

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:06

Gli anni ’70 sono stati segnati dalla rinascita dell’Islam radicale, soprattutto in seguito al fallimento delle esperienze nazionaliste laiche nei due principali Paesi musulmani del Medio Oriente, l’Egitto e l’Iran. Il ritorno dell’Islam nella sua versione militante ha avuto luogo un po’ ovunque sotto l’influenza di intellettuali musulmani che si rifacevano ai Fratelli Musulmani, come Sayyid Qutb e il suo equivalente pakistano Mawdûdî. In Iran si è sviluppato uno sciismo rivoluzionario, in particolare sotto l’egida di Ali Shariati, e in Egitto una nuova generazione di intellettuali e ideologi islamisti, per i quali «l’Islam è la soluzione», ha dato vita a movimenti quali al-takfîr wa l-hijra.

Nella versione sciita del radicalismo religioso il posto centrale è occupato dalla nozione di martirio. Il jihad gli è associato, ma in una forma simbolicamente subordinata. Nel sunnismo radicale è vero il contrario, poiché il martirio è percepito quale strumento per realizzare il jihad. Va detto che né il martirio né il jihad sono pilastri dell’Islam. Nessuna delle due nozioni è infatti menzionata direttamente nei cinque principi dell’Islam. Entrambe le correnti radicali hanno però tentato di dedurre tali nozioni a partire dalla propria lettura dei principi dell’Islam. Shariati fa riferimento al tawhîd (l’unicità divina), la nozione fondante dell’Islam in base alla quale il musulmano afferma che «Non vi è altro dio che Iddio». Per lui, in questa attestazione la negazione precede l’affermazione e questa negazione investe tutti gli “idoli” (taghût), cioè i tre pilastri dell’ordine politico illegittimo: l’Oro (il capitalismo), la Violenza (l’imperialismo) e l’Ipocrisia (la versione falsata dell’Islam adottata dai governi che sostengono l’ordine illegittimo fondato sul capitalismo e sull’imperialismo).

Per i sostenitori del sunnismo radicale è il riferimento ad al-walâ’ wa l barâ’, ossia la fedeltà (all’Islam) e l’antagonismo (all’idolatria), a trovarsi alla base della lotta senza quartiere contro i crociati, i sionisti e i loro mandatari nel mondo musulmano, i governi empi lacchè dell’imperialismo empio. Le due correnti si basano dunque sul tawhîd per legittimare un’opposizione senza pietà alle “idolatrie”, ovvero a tutti i poteri che si richiamano a un principio diverso dall’Islam (i poteri laici e, tra questi, la democrazia).

Il jihad radicalizzato s’iscrive in questa prospettiva: è la guerra senza pietà contro i princìpi empi di un ordine politico illegittimo dal punto di vista islamico. Per realizzare l’ideale islamico attraverso il jihad il musulmano deve mettere in gioco la propria vita, secondo la nozione del dovere imperativo e individuale (fard al-‘ayn). Il martirio si situa in questa logica: donare la propria vita per salvare l’Islam e far regnare l’ordine islamico nel mondo. Per gli sciiti radicali la versione “universale” dell’Islam è subordinata in pratica alla propria egemonia sulla versione dominante tra i sunniti (costoro sono i nove decimi dei musulmani del mondo, contro un decimo di sciiti).

Il riflesso minoritario fa sì che gli sciiti non mirino tanto a espandersi nel mondo intero, quanto ad assicurarsi una parte del mondo musulmano, per lo meno laddove sono in maggioranza, come in Iran, Iraq e Libano. Più che all’egemonia universale dell’Islam, la loro concezione mira al riconoscimento dello sciismo come versione legittima della religione di Dio. Il martirio si iscrive in una visione di “pathos” sciita per lungo tempo perseguitato dal sunnismo maggioritario. Il martirio ha d’altra parte il suo modello nella morte sacra di Husayn, il terzo imam sciita, nella lotta contro il califfo omayyade Yazîd che per gli sciiti incarna il male assoluto. Il martirio di Husayn non ha luogo nella lotta contro i non-musulmani, ma nella guerra contro i musulmani sunniti che negano a Husayn, nipote del Profeta, la leadership legittima del mondo musulmano, in nome di un principio dinastico, quello degli omayyadi detentori del potere califfale. Il martirio di Husayn è riattualizzato dagli ideologi sciiti per condurre la loro lotta contro il male: innanzitutto contro il regime dello Shah d’Iran (rovesciato dalla Rivoluzione Islamica nel 1979) e poi in Libano nella lotta contro sunniti, maroniti (cristiani) e israeliani. In Iraq la lotta contro i sunniti (prima sotto Saddam Hussein) e poi contro i sunniti anti-sciiti, dopo il rovesciamento del governo di Saddam a opera degli americani nel 2003, è il pilastro del martirio. Nella sua versione sciita, il martirio è la lotta fino alla morte contro l’ingiustizia e il male incarnati dall’ordine mondiale empio, ma anche dalla versione maggioritaria dell’Islam, il sunnismo.

 

Unicità divina 

Il martirio di Husayn viene riattualizzato dagli ideologi sciiti perché possa globalizzarsi e applicarsi al mondo moderno. Il jihad è subordinato a questa nozione archetipica, ormai declinata in nuove formule: il guerrigliero sciita può farvi ricorso per morire in una lotta senza fine contro l’egemonia del potere empio, come Husayn che accettò la morte in una lotta impari (lo accompagnavano 72 fedeli) contro l’esercito formato da migliaia di persone del califfo Yazîd. Nella lunga guerra lanciata da Saddam Hussein contro l’Iran rivoluzionario (1980-1988) l’esercitò iraniano reclutò la Bassije, un’organizzazione di volontari sciiti che raccoglieva 400 mila membri. Essi combattevano per salvaguardare l’integrità territoriale dell’Iran ma anche la recente Rivoluzione islamica, capace di mobilitare buona parte della gioventù popolare. I giovani bassiji erano debitamente indottrinati dal regime islamista, che li incoraggiava ad abbracciare il martirio sul modello di Husayn, il principe dei martiri (sayyid al-shuhadâ’), che non aveva avuto paura di morire. Essi nutrivano inoltre la certezza di trovare posto in paradiso insieme alla Sacra Famiglia del Profeta. Contro il regime di Saddam Hussein, così come nella lotta ideologica contro l’Occidente, gli sciiti radicali non hanno mai preso in considerazione la nozione di jihad come principio direttivo della lotta. Allo stesso modo, contro l’opposizione interna iraniana il regime teocratico dell’ayatollah Khomeini non ha mai fatto uso del jihad.

Per contro, questa nozione, per certi versi fondamentale e per altri marginale tra gli sciiti, è stata ampiamente utilizzata dagli islamisti radicali sunniti. Per costoro il jihad deve essere compreso in stretta connessione con la nozione di unicità divina (tawhȋd), che postula la lotta fino alla morte contro l’empietà e l’idolatria, ossia, in ultima istanza, contro il sistema politico internazionale (istikbâr) e i regimi non-islamici, cioè idolatri, dal momento che si rifanno al popolo e alla sua egemonia piuttosto che a Dio e alla Sua assoluta sovranità. La nozione di istikbâr (arroganza) è la riattualizzazione di una nozione coranica che gli sciiti hanno messo in voga nella lotta contro il regime dello shah in Iran e che, in seguito, si è diffusa nel sunnismo, soprattutto in relazione alla lotta contro l’egemonia americana e più in generale occidentale.

Nel sunnismo il martirio (shahâda) non ha il pathos che assume nello sciismo. Husayn, il terzo imam, e più in generale la famiglia del Profeta, gran parte della quale è stata decimata, secondo il punto di vista sciita dominante, proprio dai califfi sunniti, non operano come modelli da seguire e imitare. Il rispetto di cui si circonda la famiglia del Profeta nel sunnismo non ha nulla a che vedere con la sua sacralizzazione nello sciismo, per il quale essa è depositaria della salvezza. Ciascun imam (fino al dodicesimo, occultato e che ricomparirà come Messia alla fine dei tempi) è come il detentore della Scienza Infusa e la sua persona è infallibile e “impeccabile”: non può peccare essendo puro e non può sbagliare, essendo direttamente inspirato da Dio. In breve, l’Imam sciita è ma‘sûm, ovvero dotato della duplice capacità di essere senza peccato e non incline a sbagliare né a deviare dalla Retta Via (al-sirât al-mustaqîm, la via diritta, ortodossa).

Il jihad sunnita si basa su un dovere imperativo, fondato sulla reinterpretazione del Corano ma anche sulla “ri-visitazione” della Sunna, cioè degli hadîth (i detti del Profeta) che legittimano il ricorso alla violenza legittima nella guerra santa contro gli empi e gli eretici. In pratica, è attraverso l’Hezbollah del Libano, creato all’inizio degli anni ’80 con l’aiuto diretto dell’Iran, che il modello sciita del martirio si diffonde nel mondo musulmano, in particolare presso i palestinesi, Hamas e gli altri gruppi radicali islamici che se ne ispirano direttamente. I suicide bombers sunniti, pur essendo ferocemente anti-sciiti, ne seguono le orme. Essi applicano in particolare il modello di abnegazione dei bassiji iraniani, segnati non solo da una volontà accanita di lottare contro il nemico, ma anche dal “desiderio ardente” di morire al servizio dell’Islam, nella sua versione attivista.

 

Universalismo e egemonia

Tra i sunniti radicali, a prevalere non è un’egemonia limitata, come per gli sciiti, bensì la volontà di diffondere l’Islam in tutto il mondo con la violenza. Gli sciiti sono inibiti dal loro statuto minoritario nell’Islam e il loro jihad è tutt’al più locale (la lotta contro l’egemonia israeliana, americana, occidentale in terra sciita ma anche laddove i non-musulmani abbiano fatto irruzione fra i musulmani, come nei territori palestinesi), mentre i sunniti radicali puntano direttamente alla “mondialità”, alla conquista del mondo in nome della vocazione dell’Islam a essere una religione universale. A loro avviso non è tanto la logica della persuasione e del proselitismo pacifico a dover conquistare i cuori e gli spiriti degli uomini, ma una forma di affermazione di sé segnata dalla violenza legittima di una religione che ha come fine ultimo quello di imporsi al mondo.

Questo atteggiamento è in opposizione alla posizione della stragrande maggioranza del mondo musulmano, che mira innanzitutto ad abbracciare una versione pacifica della religione che possa assicurare la coesistenza e il progresso economico e sociale delle società musulmane. Ecco perché i jihadisti sunniti sono totalmente contrari alle diaspore musulmane nelle società occidentali. Secondo loro i musulmani devono lasciare i paesi occidentali per tornare in terra d’Islam, con l’eccezione di una minoranza che deve diffondere la Parola di Dio e in caso di necessità ricorrere alla violenza per imporre a tutto il mondo la propria versione della religione. Il jihad trova dunque la sua centralità nell’Islam radicale sunnita, mentre il martirio è semplicemente un mezzo per realizzare il fine ultimo, la conquista di tutto il mondo da parte dell’Islam. Per gli sciiti, lo spazio del senso è pressoché emotivamente saturato dal martirio e il jihad, alla fine, non è altro che un principio astratto al quale si fa riferimento solo saltuariamente, visto che nella loro prospettiva la lotta contro l’egemonia sunnita è tanto pregnante quanto la guerra contro l’arroganza mondiale (estekbar jahani).

Nello sciismo radicale l’instaurazione della Repubblica Islamica d’Iran nel 1979 ha creato una situazione nuova: per la prima volta si è compiuta una rivoluzione in nome di Dio e, per gran parte degli sciiti radicali, il compito primo del credente consiste nel conservarne le acquisizioni e assicurarne la sopravvivenza e la continuità. Il regime ha cercato di diffondere la sua versione dell’Islam, ma l’unico luogo in cui ha conosciuto un certo successo è il Libano, dove gli sciiti sono numericamente molto consistenti, forse la maggioranza della popolazione, anche se per ragioni politiche non disponiamo di alcun censimento recente della popolazione in termini confessionali. Altrove, il messaggio del Governo Islamico (velayat faqih) non è stato coronato da successo e il particolarismo sciita ne rende difficile l’accettazione da parte dei sunniti, che vi vedono un tentativo di egemonia sciita. Le nozioni di martirio e di jihad vengono perciò messe al servizio del regime iraniano, piuttosto che essere indirizzate a un progetto globale finalizzato all’egemonia dell’Islam sulla scena mondiale.

Al contrario, nel sunnismo radicale si trova esattamente la vocazione all’egemonia mondiale ed è questa la ragione per cui gli ideologi di tale versione del sunnismo mobilitano nozioni quali il jihad o il martirio per realizzare un’ambizione che, a loro avviso, è un imperativo islamico categorico. Il jihadismo trans-nazionale (il terrorismo trans-nazionale che si appella al jihad) promuove una versione dell’Islam il cui obiettivo è condurre la lotta violenta contro il mondo esterno nel nome degli ideali islamici, primo fra tutti il jihad. Questa nuova versione rompe per il suo radicalismo e la sua intransigenza con la visione tradizionale, che poneva l’accento sul jihad difensivo (la lotta per difendere i paesi e le società musulmane) piuttosto che sul jihad offensivo (la conquista dei paesi non-musulmani imponendo loro l’Islam come religione o come principio egemonico). Tale concezione del jihad è diretta non solo contro il mondo occidentale, ma anche e soprattutto contro i regimi islamici e in particolare gli sciiti, percepiti nella migliore delle ipotesi come falsi musulmani, “ipocriti” (munâfiq) che seminano la discordia nel mondo musulmano, e nella peggiore come idolatri, più pericolosi dei non-musulmani dichiarati.

 

Cambiamento strategico

La “primavera araba”, iniziata alla fine del 2010 è contraddistinta da movimenti sociali democratici nella maggior parte dei paesi arabi; coronata da successo in Tunisia e in parte in Egitto, lascia sgomenti gli islamisti radicali, sia sciiti sia sunniti. Per i primi, guidati in gran parte dall’Iran, la rivendicazione democratica, lanciata anche in Iran dal Movimento Verde nel giugno del 2009, è pericolosa per la teocrazia islamica, ragion per cui quanti la dirigono sono considerati capi della fitna, del dissenso e della discordia nell’Islam. Per gli islamisti sunniti il movimento democratico ha certamente avuto come conseguenza il rovesciamento di due tra i regimi arabi che più si opponevano alla causa dei jihadisti ma, d’altra parte, essi temono che la rivendicazione democratica significhi anche la fine della rivendicazione di un regime islamico duro e puro. La democrazia significa infatti sovranità del popolo e non l’egemonia divina per mezzo di una lettura restrittiva e altamente esclusiva del Corano, incarnata da un gruppo di teologi e giuristi islamisti radicali che assumerebbero il potere in nome delle proprie competenze religiose e del loro impegno politico. Ecco perché la nuova era che si apre con questi movimenti cambia anche la strategia dei jihadisti nei confronti dei nuovi poteri emergenti. Si è ancora nella fase degli indugi e delle incertezze, ma fin d’ora ci si può attendere che la spinta verso la democrazia avrà come conseguenza l’indebolimento della legittimità dei jihadisti agli occhi dell’opinione pubblica araba. Se l’esperienza democratica fallisce, essi potranno raccoglierne i dividendi presentando il loro modello come l’unico credibile. Al contrario, se la democratizzazione s’iscriverà stabilmente nei sistemi politici arabi, il jihad offensivo e il martirio incondizionato subiranno una battuta d’arresto duratura.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Farhad Khosrokhavar, La mia guerra è più santa della tua, «Oasis», anno VII, n. 13, luglio 2011, pp. 31-34.

 

Riferimento al formato digitale:

Farhad Khosrokhavar, La mia guerra è più santa della tua, «Oasis» [online], pubblicato il 1 luglio 2011, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/la-mia-guerra-e-piu-santa-della-tua

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