A partire dalla fine degli anni ’60, il Paese dei Cedri viene investito dalle crisi che colpiscono il mondo arabo. La guerra civile che ne scaturisce provoca lo smembramento del piccolo Stato mediorientale, che cessa di essere un modello di convivenza e sviluppo economico
Ultimo aggiornamento: 22/11/2022 16:28:53
[Questa è la terza puntata sulla storia del Libano. Qui è disponibile la seconda sul periodo 1943-1967]
Se la posizione di crocevia tra i continenti del vecchio mondo ha garantito al Libano molti vantaggi economici, finanziari e politici, essa ha decretato anche la fine del suo sviluppo e di quel modello unico che il Paese dei Cedri aveva rappresentato per il mondo arabofono. Non a caso nel 1963 il Libano aveva ricevuto una delegazione da Singapore – uno dei Paesi che sarebbe diventato tra i più prosperi del pianeta – la cui missione principale era consistita nel carpire il segreto del successo sia del modello di coesistenza tra comunità religiose diverse sia di quello che alcuni osservatori avevano definito il “miracolo economico libanese”.
L’inizio della catastrofe
Il 5 giugno 1967 segna una svolta per i Paesi di lingua araba. La mattina di quel giorno, Israele lancia un’offensiva contro Egitto, Siria e Giordania. In cinque giorni, l’esercito israeliano riesce a occupare la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, annettendo così Gerusalemme. Per la seconda volta in vent’anni, gli eserciti dei tre Stati arabi sono sconfitti. Per i Paesi di lingua araba, Libano compreso, le conseguenze sono disastrose. È in questo contesto che i vari partiti palestinesi raggiungono la consapevolezza di non poter più contare sugli eserciti arabi per liberare la Palestina.
D’ora in poi, sarà la “resistenza palestinese” a raccogliere il testimone della lotta contro Israele per la liberazione di tutta la Palestina, dal “mare al fiume”. Questa resistenza si afferma gradualmente attraverso la presenza di un numero crescente di uomini e armi in Libano e Giordania. I campi palestinesi in questi due Paesi si militarizzeranno, tanto più che i leader della resistenza decidono di fare di Amman e poi di Beirut, la «Hanoi della rivoluzione palestinese».
Trasformando il Libano meridionale in una rampa di lancio per i suoi attacchi contro Israele, la resistenza palestinese diventa rapidamente un attore centrale della scena politica libanese. I libanesi si dividono allora in due fronti: mentre la maggioranza dei musulmani e dei partiti di sinistra si unisce alla resistenza palestinese, riconoscendole il diritto di usare il territorio libanese per attaccare Israele, la maggioranza dei cristiani, pur simpatizzando per la causa palestinese, rifiuta la militarizzazione dei palestinesi che vivono in Libano, considerandola un attacco alla sovranità del Paese. I cristiani temono inoltre che gli attacchi palestinesi inducano Israele a prendere di mira i villaggi nel Sud del Libano e sospettano che i loro compatrioti musulmani vogliano approfittare della consistenza demografica palestinese e della sua forza militare per alterare a favore della componente islamica l’equilibrio del sistema politico libanese.
Nonostante gli appelli alla ragione lanciati dall’allora presidente della Repubblica Charles Hélou, che è cosciente dei pericoli insiti nell’insediamento di un esercito palestinese nel Paese e insiste sulla necessità di non esporre il Libano meridionale alle brame israeliane, i musulmani libanesi si lasciano prendere «dalla demagogia del momento, quella dei partiti di sinistra, [e] di un’opinione cosiddetta islamica fomentata dalla denuncia sistematica dei “privilegi” maroniti»[1].
Dopo due anni di combattimenti intermittenti tra l’esercito libanese e i movimenti della guerriglia palestinese, gli accordi del Cairo del 1969, conclusi sotto il patrocinio di Nasser tra lo Stato libanese e l’OLP presieduta da Yasser Arafat, finiscono per legalizzare la presenza armata dei palestinesi in Libano. Ciò consente loro di stabilire un embrione di Stato all’interno dello Stato libanese[2], situazione che si consoliderà con la sconfitta politica definitiva del chehabismo alle elezioni presidenziali del 1970. Sebbene il presidente eletto, Soleiman Frangié (1970-1976), tenti di attuare un programma di riforme, il suo primo governo riuscirà solo ad indebolire i rappresentanti del chehabismo che lavoravano nelle varie branche amministrative del Paese.
A livello regionale, una serie di eventi modificherà il panorama arabo. In primo luogo, l’ascesa delle monarchie petrolifere, contemporaneamente islamiche e filo-occidentali, dovuta principalmente all’indebolimento dell’asse dei Paesi “progressisti” capitanati dall’Egitto, sconfitti nel giugno 1967; poi la morte di Nasser nel settembre 1970; l’ascesa di Hafez al-Asad come capo indiscusso della Siria, che mira inoltre a succedere a Nasser nel ruolo di leader del “mondo arabo”; l’annientamento della resistenza palestinese in Giordania nel settembre 1970 e nel luglio 1971 e la conseguente fuga delle organizzazioni palestinesi dalla Giordania verso il Libano. Saranno questi stessi avvenimenti, nel loro insieme, a contribuire alla destabilizzazione del Paese dei Cedri. Traumatizzata dal massacro del “settembre nero” in Giordania, la resistenza palestinese porta avanti in Libano una politica di riavvicinamento con i partiti di sinistra e con i leader locali (zu‘amā’) musulmani che ha l’obiettivo di creare intorno a sé una rete che le eviti di essere di nuovo schiacciata. Questo ha l’effetto di acuire ulteriormente i contrasti e la sfiducia reciproca già esistenti tra i libanesi. Tuttavia, questi ultimi riescono a condurre una vita politica quasi normale fino all’ottobre 1973, data della guerra arabo-israeliana.
Il 6 ottobre, infatti, con un’azione perfettamente coordinata, l’Egitto di Sadat e la Siria di al-Asad, scatenano una guerra che sorprende Israele. Nei primi giorni i due eserciti arabi sembrano padroni dei loro movimenti. L’esercito egiziano riesce ad attraversare il Canale di Suez, prendendo possesso della sua sponda orientale e occupando la famosa linea Bar-Lev. Da parte sua, l’esercito siriano sfonda l’intero apparato di sicurezza israeliano sulle alture del Golan, preparandosi a discenderle per penetrare in Galilea. L’esercito israeliano riesce a riconquistare le proprie posizioni solo grazie al ponte aereo degli americani, accorsi per salvare il loro alleato. In pochi giorni l’esercito israeliano ribalta la situazione e rioccupa i territori liberati da egiziani e siriani durante i primi giorni di guerra. L’allora Segretario di Stato americano, Henri Kissinger, si adopera nei mesi successivi per ottenere un accordo di disimpegno delle truppe (gennaio 1974) tra Egitto e Siria da un lato e Israele dall’altro, poi di non belligeranza tra Egitto e Israele il 1° settembre 1975.
Questi accordi annunciano la fine delle guerre convenzionali tra gli eserciti arabi e l’esercito israeliano. In altre parole, è vietato a chiunque attraversare i confini egiziano, siriano e giordano per liberare la Palestina. Inoltre, gli accordi emarginano completamente la causa palestinese e il diritto dei palestinesi a tornare nelle loro case e ad avere un proprio Stato. È ormai in Libano che si faranno sentire le conseguenze della diplomazia di Kissinger. Questo piccolo Paese diventa per la resistenza palestinese l’unico spazio dal quale è possibile combattere Israele. A partire da questo momento, la resistenza aumenta i suoi attacchi contro lo Stato ebraico, rafforza i suoi campi con armi pesanti e vi raduna i combattenti. Inoltre, distribuisce abbondantemente armi a tutti i partiti islamici e di sinistra che la sostengono. Da parte loro, i partiti cristiani, in particolare quello delle Falangi, iniziano a comprare armi e a moltiplicare i campi di addestramento. Alla fine del 1974 il Paese è diviso tra due fazioni antagoniste: da un lato l’alleanza palestinese-progressista-islamica che riunisce i palestinesi, i partiti di sinistra e i leader locali musulmani e, dall’altro, il “Fronte libanese” che riunisce i partiti e i leader locali cristiani.
Lo smembramento dello Stato
Il 13 aprile 1975 si verificano due eventi che segnano l’inizio dello smembramento dello Stato libanese e il collasso del Paese. Quel giorno, infatti, il tentativo di assassinare il leader del partito delle Falangi, Pierre Gemayel, e l’agguato a un autobus palestinese nella periferia orientale di Beirut, tradizionale roccaforte cristiana, trascinano il Libano nel caos totale. Pochi mesi dopo, i vari partiti dell’alleanza palestinese-progressista-islamica espongono le loro rivendicazioni. È il direttore generale dell’Ufficio del mufti sunnita, Husayn al-Quwwatlī, a presentare la posizione dei musulmani rispetto alla crisi libanese, in un articolo pubblicato il 18 agosto sul quotidiano al-Safīr. Per la prima volta nella storia del Paese, i rappresentanti dei musulmani legano le loro rivendicazioni alla dottrina islamica del governo. Rivolgendosi ai cristiani, in particolare ai maroniti, al-Quwwatlī attacca la “formula libanese” che, ai suoi occhi, è stata sviluppata solo per sostituire la “formula dell’Islam” e per consacrare il predominio politico maronita. Ricordando ai cristiani che i musulmani non possono abbandonare l’obiettivo di stabilire “uno Stato islamico in Libano” conforme al “vero Islam”, al-Quwwatlī si mostra pronto a concludere un nuovo compromesso con i cristiani a condizione che i maroniti rinuncino ai propri privilegi. Altrimenti, afferma, i musulmani avranno una sola via d’uscita: l’istituzione dello “Stato islamico”. I partiti di sinistra, dal canto loro, il 19 agosto annunciano il loro programma di riforme,[3] riassumibile in due punti principali: accusando il campo avversario di operare per sfilare il Libano dal conflitto arabo-israeliano, essi confermano la loro cooperazione alla “rivoluzione palestinese” non solo nella sua lotta contro “il nemico sionista”, ma anche nella difesa del territorio libanese contro le rappresaglie israeliane; in secondo luogo, indicano nel “confessionalismo politico” il responsabile dei mali del Libano e presentano “la soluzione democratica laica” come unico modo possibile di soddisfare le aspirazioni del popolo libanese.
Rispondendo a queste affermazioni islamo-progressiste, sostenute dalla forza militare, demografica e politica dei palestinesi, i cristiani accusano i musulmani di nutrirsi di “fanatismo” religioso e li incolpano di non aver mai accettato la loro “appartenenza al Libano”, preferendole l’“appartenenza […] organica al mondo arabo”. Rimproverano inoltre i partiti di sinistra di scarsa lealtà verso il Paese[4]. Accusando i palestinesi e i loro alleati libanesi di aver commesso crimini contro i villaggi e le istituzioni cristiane del Paese, i portavoce dei cristiani esprimono il loro attaccamento alla personalità specifica del Libano come entità indipendente dal mondo arabo; inoltre, annunciano la loro resistenza all’attacco guidato dall’alleanza tra la “rivoluzione palestinese” e la sinistra e l’islamismo politico libanesi. Di fronte alle richieste islamiche di mettere fine al confessionalismo in vista dell’islamizzazione del Paese, i cristiani propongono un nuovo regime politico basato sulla “laicità” e sulla “federazione”, nel quale esisterebbero, parallelamente al “governo centrale”, “governi locali” per ciascuna comunità, con un’origine, una cultura e uno stile di vita propri. Questi governi locali sarebbero eletti dalle diverse comunità per gestire i loro affari interni. Quanto al governo centrale, i suoi poteri si limiterebbero a garantire gli “interessi comuni” di tutte le comunità, a condurre la politica estera e la politica di difesa, come nel modello canadese o in quello svizzero[5]. In altre parole, la scelta “federativa” non fu altro che l’espressione della delusione cristiana per il modello di convivenza con i musulmani, per i quali le cause arabe e islamiche avevano la precedenza sulla causa libanese e, di conseguenza, sulla loro convivenza con i cristiani.
Danza macabra sulle spoglie del Libano
Tutte le guerre avvenute in Libano tra il 1975 e il 1990 possono probabilmente essere riassunte con l’immagine che il grande letterato libanese Khalil Ramez Sarkis descrive nel suo libro Da Beirut a Kensigton[6]: «un giorno, da casa nostra, vedemmo nel bel mezzo di un negozio di Beirut in fiamme un giovane armato, di circa 15 anni, con in mano un lanciamissili cinese e degli zoccoli ai piedi. All’improvviso, il giovane gettò il lanciamissili davanti al negozio distrutto, si tolse gli zoccoli e si lanciò in una danza sui vetri rotti che ricordava la danza di Zorba. Il sangue scorreva da entrambi i piedi, ma lui rimase indifferente. Alla fine del ballo, si rivolse ai suoi amici dicendo: “Io stesso e quelli come me uccideremo le istituzioni del Libano e balleremo sulle loro macerie. Sacrificheremo il nostro sangue per la causa della rivoluzione fino alla vittoria. Aspettavamo questo momento da mille anni. Stiamo attendendo l’ora in cui potremo distruggere e bruciare molte cose che abbiamo condannato a morte. Com’è bello ballare sui cadaveri dei nemici”. Uno dei presenti rispose: “Bravo, figlio mio”. E il giovane a sua volta: “Chiudi il becco prima che ti uccida”». Se questa scena mostra l’assurdità di questo giovane e della battaglia a cui partecipa, rivela anche la quantità d’odio e di risentimento che molte persone nutrivano in quel momento verso il Libano e le sue istituzioni; un odio e un risentimento che si spiegano soltanto con il rifiuto di ciò che il Libano ha rappresentato dal 1920 fino al 1975.
Ad ogni modo, i libanesi, cristiani e musulmani, per la prima volta dal 1920 si trovano di fronte alla questione di rinunciare al patto nazionale a favore di uno Stato che separi le comunità. Dal 1975 al 1990, diversi episodi e forme di guerra si susseguono con innumerevoli “cessate il fuoco” mai osservati per più di pochi giorni o poche settimane. A poco a poco, lo Stato libanese perde il controllo del proprio territorio a vantaggio delle organizzazioni palestinesi e di varie milizie di sinistra, islamiche e cristiane. A tutto ciò si aggiunge inoltre, nel giugno 1976, l’occupazione del territorio libanese da parte dell’esercito siriano, motivata dalla volontà di ripristinare la stabilità nel Paese, prima che l’esercito israeliano occupi a sua volta il Libano meridionale nel marzo 1978[7]. Il Paese si trova così diviso tra i suoi due potenti vicini, in virtù di un tacito accordo tra Siria e Israele, ideato da Kissinger e in seguito noto come accordo delle “linee rosse”. Nel giugno 1982, Israele invade nuovamente il Libano, questa volta riuscendo ad occupare Beirut. Gli anni dal 1982 al 1990 costituiscono il periodo più buio della guerra. Sebbene l’esercito israeliano si sia ritirato da Beirut per stabilirsi nel Sud e sia le organizzazioni palestinesi che l’esercito siriano siano stati dispersi, il Libano cade sotto i colpi delle milizie, mentre fioriscono i progetti confessionali. Le conferenze organizzate a Ginevra e Losanna tra i rappresentanti dei diversi partiti libanesi al fine di raggiungere un nuovo compromesso che consenta il ristabilimento dell’ordine e della convivenza, rispettivamente nel novembre 1983 e nel marzo 1984, riescono solo a consacrare il potere dei capi delle milizie. Questi, diventando membri del governo, completano la disgregazione e la paralisi dello Stato, favorendo la formazione di cantoni confessionali. È solo nel 1990 1990 che i libanesi, con l’eccezione del generale Michel Aoun e di Hezbollah, riescono a mettersi d’accordo sotto la pressione della comunità internazionale e di quella arabofona per un nuovo patto, che porta il nome della città saudita di Tā’if dove i delegati libanesi si sono incontrati nel settembre e nell’ottobre 1989. In base a quest’accordo, il Libano resterà per quindici anni (1990-2005) sotto la diretta dipendenza dalla Siria[8].
Il fallimento di un modello
Tra gli anni ’40 e ’70 il Libano è stato una casa in cui hanno convissuto famiglie spirituali diverse, mentre la sua capitale ha rappresentato una sintesi di civiltà e l’espressione di un sogno arabo capace d’ispirare le società in via di sviluppo che cercavano un modo di gestire la propria diversità interna. Dopo quindici anni di guerre (1975-1990) e trent’anni di governo mafioso (1990-2020), il Paese si è trasformato in uno Stato fallito in cui cittadini ripensano il loro vivere insieme ritirandosi da qualsiasi progetto comune per riunirsi in ghetti confessionali o per emigrare in società sviluppate. Nel 2020 i libanesi sembrano aver perso la scommessa di costruire insieme, cristiani e musulmani, un modello politico e sociale in cui tutti siano cittadini con pari diritti, rivolti alla modernità e non ai vecchi immaginari religiosi.
Ma la crisi libanese è solo una delle conseguenze delle crisi che attraversano più in generale lo spazio arabo a maggioranza musulmana; uno spazio in cui è esclusa ogni autocritica radicale del patrimonio religioso e dove il passato e la tradizione rimangono molto più potenti del futuro e della ragione. Il modello libanese ha rappresentato forse la prima vittima di questo ripiegamento delle popolazioni del Medio Oriente verso un passato religioso tanto sacralizzato quanto immaginario.
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[1] Georges Corm, Le Proche-Orient éclaté 1956-2010, Paris, Gallimard 2010, p. 295.
[2] Farīd al-Khāzin, Tafakkuk awsāl al-dawla fī Lubnān 1967-1976, Beirut, Dār al-Nahār 2002, p. 204.
[3] Si veda il testo di questo programma in Mawsū‘at wathā’iq al-harb al-lubnāniyya, op. cit., p. 74-87.
[4] Note de la Commission libanaise d’études concernant la position des chrétiens relatives à la conjoncture libanaise actuelle adressée par le Congrès permanent des Supérieurs généraux des Huit ordres libanais (quatre maronites et quatre grecs-melkite), Beirut, 1975, p. 6, 18.
[5] Nizām siyāsī muqtarah li-Lubnān al-jadīd (“Un regime politico per il nuovo Libano”), Beirut, 1977, p. 47-50.
[6] Khalīl Rāmiz Sarkīs, Al-hawājis al-aqalliyya, min zuqāq al-balāt ilā kensigton, Beirut, Dār al-Jadīd 1993, p. 39.
[7] Si veda Alain Menargues, Les secrets de la guerre au Liban 1976 – 1984, Beirut, Librairie internationale 2006-2012, 2 tomi.
[8] Si veda Albert Mansūr, Al-Inqilāb ‘alā al-Tā’if, Beirut, Dār al-Jadīd, 1993.