Tra il 1943 e il 1967 il Paese dei Cedri vive la sua età dell’oro. Protagonisti di questo periodo sono il Presidente Fouad Chehab e la sua cerchia, che con le loro riforme ispirate a una filosofia personalista innescano uno sviluppo senza precedenti
Ultimo aggiornamento: 22/11/2022 16:30:11
[Questa è la seconda puntata sulla storia del Libano. Qui è disponibile la prima sul centenario del Grande Libano. Qui invece è disponibile la terza puntata sul periodo 1967-2020]
La storia del Libano durante il suo periodo d’oro (1943-1967) può essere compresa solo alla luce dello stato d’animo che, con l’avvento dell’indipendenza nel 1943, ha caratterizzato una generazione libanese ambiziosa e decisa a non essere più una mera spettatrice, ma a «scegliersi e volersi», come disse egregiamente il giornalista Georges Naccache in una delle sue conferenze. È il fondatore del Cenacolo libanese, Michel Asmar, figura emblematica della cultura in Libano, a restituire questo stato d’animo in uno dei suoi interventi al Rotary Club nel 1963: «Pieni di orgoglio nazionale ma anche ansiosi di fronte a una nuova pagina della loro storia, i libanesi cercano risposte ai grandi interrogativi che accompagnano l’avvento dell’indipendenza. Per loro l’indipendenza non è un fine in sé ma un inizio, quello della ricostruzione della Casa libanese»[1].
Fu Michel Chiha, «il maestro di tutti» come dichiarato da Michel Asmar, a scolpire il volto del Libano «nella sua esistenza nazionale, araba, mediterranea e globale»[2] negli anni ’40 e ’50. Presentandosi come il teorico della giovane entità libanese, Chiha si sforza, da un lato, di costruire l’idea di una personalità politica libanese “umanista” e, dall’altro, di radicare l’idea di un’economia nazionale liberale capace di svolgere un ruolo compatibile con la personalità e la geografia del Paese. Per lui il Libano non è solo un ponte tra Oriente e Occidente, ma anche «l’asse di un’elica a tre pale, Africa, Asia ed Europa», dunque uno spazio dove le correnti di tre continenti s’incontrano e trovano una sintesi per creare una nuova «realtà nazionale e internazionale». La sua teoria del Libano è contenuta in un libro pubblicato nel 1964, che raccoglie le sue conferenze intitolate: “Il Libano di oggi”, “Valori”, “Il mondo di oggi”, “Il Libano nel mondo” e “presenza del Libano”. Le idee politiche ed economiche di Chiha possono essere riassunte in questa sua frase: «Il futuro del Libano è fondamentalmente subordinato alla libertà. Libertà di fede, libertà d’impresa. [...] È con la libertà che cresceranno le possibilità del Libano e che questo piccolo territorio manterrà e svilupperà, ordinatamente, una prosperità le cui condizioni complementari sono l’equilibrio e l’intelligenza»[3]. Partendo dall’idea di “genio libanese”, Chiha difende la tesi secondo cui lo Stato deve ridurre al minimo il suo intervento in campo economico. A suo parere, i libanesi non devono adottare un’ideologia o una dottrina economica rigida. Per garantire la loro presenza ai quattro angoli del globo e per cercare fortuna “oltremare”, essi sono invitati ad una «conoscenza delle lingue, dei costumi, dei mezzi di trasporto di ogni tipo, delle reti di transito internazionale, della qualità degli scali, delle dotazione degli empori commerciali». Invitando i libanesi a credere nella loro vocazione di «macchine intellettuali», Chiha tenta di convincerli che il loro campo di azione si estende a tutto il pianeta. Per lui i libanesi, come i loro antenati fenici, sono «mercanti e commercianti di idee» e non produttori. La loro originalità risiede nel fatto di portare «i loro tesori da così lontano» attraverso l’intelligenza e l’arte: «Il nostro uomo è il professore, il nostro uomo è il dottore, il nostro uomo è l’artista, il nostro uomo è l’albergatore, l’artigiano qualificato, così come il commerciante, il commissionario, il mediatore, il commesso viaggiatore». Alla luce di queste considerazioni si capisce l’insistenza di Chiha sulla libertà come prima regola dell’economia politica libanese. Ogni attività di scambio e d’ingegno, infatti, è subordinata alla libertà: «Così il futuro dei Libanesi s’iscrive nel più ampio eclettismo, nella conoscenza, nella curiosità, nel movimento». In questo sistema, qualsiasi intervento statale appare come un pericolo.
È sulla base di questo pensiero che i leader politici libanesi dei primi due mandati presidenziali – in particolare i presidenti Béchara el-Khoury e Camille Chamoun – realizzano i loro piani economici salvaguardando allo stesso tempo una forma di regime politico democratico, anche se confessionale e consensuale, all’interno di un mondo arabo sommerso da un’ondata di dittatura militare.
Nonostante la crisi politica che il Paese attraversa alla fine del 1958, è la prosperità economica, finanziaria e monetaria raggiunta durante gli anni ’40 e ’50 a consentire al nuovo Presidente della Repubblica, Fouad Chehab, di attuare una riforma amministrativa e sociale e un piano di sviluppo generale che mettono il Libano sulla strada dei Paesi più prosperi e attraenti del mondo, portando molti osservatori a descriverlo come la Svizzera d’Oriente.
Chehab succede a Chamoun dopo una crisi politica di portata internazionale. Il suo primo compito è garantire la stabilità politica e la sicurezza. Fatto ciò, avvia delle riforme ad ogni livello, politico, economico, amministrativo e sociale. Sono questa politiche, o questo stile di governo, che l’uomo politico ed editore Georges Naccache riassumerà in una sua conferenza nella parola “chehabismo”. Preoccupato per l’indipendenza del Libano e per la sua sovranità, Chehab persegue una politica estera che consiste, da un lato, nel rafforzare le relazioni amichevoli con il presidente egiziano Nasser e nel preservare le relazioni con gli altri Paesi di lingua araba e, dall’altro, nel praticare una “neutralità positiva” nei confronti dei due campi, quello occidentale e quello sovietico.
In politica interna, Chehab fa appello al domenicano Louis Joseph Lebret, direttore della missione IRFED (Istituto Internazionale di Ricerca e Formazione per lo Sviluppo) a Beirut tra il 1959 e il 1964, per mettere in piedi una politica di «ricostruzione e di riforme fondata su due assi principali: la solidarietà sociale e la costruzione dello Stato». Per questo presidente, la coesione sociale e la costruzione delle istituzioni costituiscono la base di una perfetta cooperazione tra Stato e cittadini, grazie alla quale i libanesi sarebbero passati da uno status di comunità a uno status di nazione e popolo. Sul piano sociale, durante il suo mandato i governi si dedicano in particolare alla povertà rurale e agli squilibri regionali: fine dell’isolamento dei villaggi più remoti, fornitura d’acqua ed elettricità, sviluppo di una rete di scuole pubbliche e di dispensari, bonifica dei terreni. Viene inoltre creato un fondo previdenziale nazionale per la pensione e l’assicurazione sanitaria dei dipendenti. Per quanto riguarda la costruzione dello Stato, Chehab procede alla creazione e alla riorganizzazione di grandi istituzioni, come il Consiglio del servizio pubblico e l’Ispettorato centrale (1959), la Banca centrale del Libano (1963), la Corte di Conti, la Direzione Generale di Statistica e il Consiglio Esecutivo delle Grandi Opere.
È il filosofo libano-egiziano René Habachi, sostenuto da Michel Asmar, a svolgere il ruolo di protagonista durante il periodo chehabista, disegnando i tratti principali di questo mandato presidenziale. Il primo di questi tratti è filosofico: Habachi è infatti convinto che la filosofia sia un pilastro essenziale di ogni rinascita e di qualsiasi progetto relativo alla costruzione dello Stato. Habachi e Asmar rifiutano l’esistenzialismo ateo di Jean-Paul Sartre, così come il marxismo incarnato dall’Unione Sovietica, e trovano nella scuola personalista, sviluppata dal pensatore cattolico francese Emmanuel Mounier, la filosofia più compatibile con la realtà sociale dell’Oriente e del Libano. Operano dunque per diffonderla tra l’intellighenzia libanese e arabofona.
Il secondo aspetto è la costruzione dello Stato moderno. È in questo contesto che padre Lebret, sviluppa un progetto socio-economico affinché lo Stato possa arrivare ad abbracciare tutti i libanesi, soprattutto quelli che vivono nelle regioni più lontane da Beirut e dal Monte Libano, con l’obiettivo di rafforzare la coesione e l’appartenenza nazionale.
Il terzo tratto di questo mandato è costituito dallo sviluppo e dalla diffusione del concetto di “giustizia sociale”. La solidarietà sociale emerge infatti come fattore essenziale per la salvaguardia del Paese. È in questo contesto che l’abbé Pierre, fondatore di Emmaus, è invitato a Beirut per aiutare i libanesi a conoscere meglio il concetto di “giustizia sociale” e per creare le istituzioni necessarie a consolidarlo nella società libanese.
Il quarto aspetto consiste nel sostenere il dialogo islamo-cristiano al fine di valorizzare il ruolo spirituale del Libano, cercando di avvicinare cristiani e musulmani libanesi attorno alla questione dell’identità del Libano, discutendo temi come il rapporto tra Stato e religione, quello tra sfera spirituale e sfera temporale, o ancora la nozione di diritto o sharī‘a, la critica della religione.
Per tutti gli anni ’60 e per la prima volta in Libano, il Presidente della Repubblica e la sua cerchia adottano una nuova concezione di Stato, le cui parole d’ordine sono giustizia sociale, sviluppo, pianificazione e riforma amministrativa. Sebbene non sia riuscita a raggiungere tutti i suoi obiettivi, questa impresa condotta dal chehabismo è stata finora l’unico vero tentativo di creare uno Stato moderno in Libano.
Basta leggere i rapporti internazionali dell’epoca, che nel 1963 collocavano il Libano tra i quattro Paesi più prosperi del mondo dopo la Svizzera, la Germania occidentale e gli Stati Uniti. Anche i rapporti degli amministratori di Beirut, del Monte Libano, del Libano meridionale, del Libano settentrionale e della Beqaa mostravano chiaramente il cambiamento avvenuto durante il mandato chehabista. La lira nazionale fu classificata tra le valute più forti al mondo, con un tasso di 3 a 1 rispetto al dollaro statunitense. Nuove strade collegarono più di 1.800 villaggi, un tempo isolati dal mondo, ad altri villaggi e più in generale ai centri dei rispettivi distretti, e furono forniti di acqua, elettricità e di una rete di comunicazione. Le scuole pubbliche, gli ospedali e gli uffici postali si diffusero su gran parte del territorio libanese.
La capitale, dal canto suo, divenne un centro intellettuale, politico, commerciale e finanziario di prim’ordine. Sede di numerosi istituti d’insegnamento secondario – i più importanti dei quali sono il Collegio Maqāsid, il Collegio al-‘Āmliyyih, il Collegio dei Fratelli delle Scuole Cristiane, il Collegio protestante, il Collegio della Sapienza – Beirut divenne anche il centro universitario del Medio Oriente con quattro università (l’Università [pubblica] libanese, l’Università americana, l’Università Saint-Joseph e l’Università araba) e la sede di diversi centri culturali nazionali, arabi e internazionali, i più importanti dei quali sono il Cenacolo Libanese (fondato da Michel Asmar nel 1946), la Casa dell’Arte e della Letteratura (fondata da Janin Rbeiz nel 1967), il Centro culturale iracheno, e i Centri culturali britannico, francese e italiano. Inoltre, Beirut contava allora 55 hotel di prima e seconda categoria e oltre 1400 tra ristoranti, caffè e bar. Aperta al mondo, la città aveva un porto che divenne il «centro n. 1 del Medio Oriente» e un moderno aeroporto in cui si stabilirono numerose compagnie arabe e internazionali. Insieme a un’ampia rete di banche nazionali ed estere, Beirut si distinse anche per la sua borsa, la prima tra i Paesi di lingua araba. Spazio di libertà, centro di diffusione dell’informazione con più di 51 giornali, di cui quattro in francese, due in inglese, quattro in armeno e il resto in arabo, la capitale libanese divenne la meta preferita degli intellettuali di lingua araba. A questo si aggiunge il gran numero di centri culturali, teatri (soprattutto il teatro dei fratelli Mansour e Assi Rahbani e della moglie del secondo, Fayrouz, che portarono in tutto il mondo la lingua e la canzone libanese), biblioteche, tra cui la Biblioteca Nazionale e la Biblioteca Orientale dei Gesuiti, e case editrici che facilitarono la ricerca e la pubblicazione di opere, mentre da parte loro una radio e una televisione in forte espansione contribuirono, da un lato, allo sviluppo e alla diffusione della cultura e, dall’altro, alla creazione di un’atmosfera di libertà.
Beirut riesce così negli anni ’60 a incarnare la sintesi della moderna civiltà libanese che, pur essendo aperta a tutto il mondo, si interroga sulle sue origini, sulla sua identità e sul suo futuro. Il giornalista Nazh Khatir, vissuto in quell’epoca, descrive Beirut con questa parole: «era una città dinamica e piena di vita. La gente vi accorreva per cercarvi fortuna. […] Era l’epoca del risveglio e del sogno. Abbiamo voluto creare Beirut secondo il modello europeo, per renderla una città moderna inserita nel nostro tempo. Era bella. Ci chiamava. […] Era contenta di aprirci le braccia. Ci vivevamo felici. Beirut ha sviluppato un’arte di vivere. […] È stata generosa e accogliente sia con i suoi abitanti che con i paesani provenienti dal Sud, dal Nord e dalle montagne. Ha sintetizzato tutti gli accenti delle varie regioni, creando la “lingua libanese”. Potevi incontrare sia quello che indossava lo shirwāl sia quello vestito in stile occidentale. Era una città piena di colori»[4].
Dal 1946 al 1967, il Libano e i libanesi hanno dimostrato che le nazioni e le identità sono costruzioni ed esperienze umane fondate sulla volontà di vivere insieme. Hanno presentato un modello in cui una nazione può prendere forma e svilupparsi rimanendo aperta sia all’Occidente che ai suoi vicini arabi, cercando la propria identità e il proprio ruolo nell’evoluzione della civiltà umana. Tuttavia, questa nazione non aveva il potenziale per difendersi dai marosi delle crisi mediorientali, che, a partire dalla catastrofica sconfitta militare araba contro l’esercito israeliano nel giugno 1967, avrebbero rovesciato tutto. Sarà il Libano ad esser scelto per pagare, da solo, il prezzo della pace arabo-israeliana e della causa palestinese.
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