Da sempre la natura dell'atto umano è al centro della riflessione teologica islamica. Il Corano infatti appare sostenere simultaneamente l'onnipotenza di Dio e la responsabilità dell'uomo

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Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:25:39

Il testo sacro dell’Islam appare sostenere simultaneamente l’onnipotenza di Dio e il libero arbitrio umano, sottolineando la responsabilità personale di ciascun essere umano verso i propri atti. Lo scontro, apparentemente irrisolvibile, tra i concetti di libera volontà e di predeterminazione divina, è stato uno dei grandi temi della riflessione teologica islamica.

 

L’Islam, quale religione di legge rivelata, implica l’esistenza di un’intelligenza capace di cogliere il significato di tale legge e di una volontà suscettibile di sottomettervisi o non sottomettervisi. Nella sua realtà di messaggio rivolto all’uomo e a beneficio di quest’ultimo, l’Islam riconosce nell’essere umano una creatura in grado di comprendere il contenuto della verità rivelata e di accoglierla secondo il proprio volere[1]. Da questo scaturisce il concetto basilare di responsabilità, fondata sulla libera e volontaria accettazione della legge. L’uomo dunque, quale creazione divina, sarebbe da Dio stesso voluto e designato come suo vice-reggente e vicario (cfr. Corano 2,30) per adempiere la sua missione terrena di continuare l’opera creatrice di Dio nell’universo.

 

Nella teologia islamica la nozione dell’uomo come delegato di Dio diventa potenzialmente alternativa a quella di libertà. Concorrendo alla creatività divina secondo condizioni individuali, il musulmano, nel suo mettersi in rapporto con Dio, si riconoscerebbe fieramente quale Suo servo o ‘abd, prendendo coscienza della trascendenza del suo Signore e della conseguente distanza esistente tra umanità e divinità; riconoscerebbe in Dio il proprio rabb, signore e maestro e nell’esercizio della divina rubūbiyya (signoria) riscoprirebbe l’onnipotente sovranità del Creatore. Corollario della condizione dell’uomo quale servo di Dio sarebbe il non aspirare a una normale forma di libertà (ikhtiyār).

 

L’inferiorità del servo sarebbe comunque riscattata dall’investitura divina che lo rende Suo amministratore sulla terra. Tale “eredità”, che per il credente è meccanismo insieme di riscatto e responsabilizzazione, viene affidata secondo l’Islam a ogni individuo all’interno del suo campo d’azione: «Iddio non imporrà a nessun’anima pesi più gravi di quel che possa portare. Quel che si sarà guadagnato sarà a suo vantaggio e quel che si sarà guadagnato sarà a suo svantaggio» (Cor. 2,286). Lo scontro, apparentemente irrisolvibile, tra i concetti di libera volontà, intesa come umano libero arbitrio, e di determinismo, ossia divina predeterminazione, è da sempre oggetto di grande interesse, ma soprattutto di accesa controversia, delineandosi non esclusivamente come problema accademico o teologico-filosofico, ma anche politico, in virtù delle ripercussioni che tale dottrina possiede in ambito sociale[2]. Secondo una serie di tradizioni, lo stesso Profeta avrebbe scoraggiato le speculazioni in materia[3].

 

Il primo secolo islamico

 

Il Corano sembra sostenere simultaneamente l’onnipotenza di Dio e il libero arbitrio umano. Dio è «Creatore di tutte le cose» (6,101; 13,12; 25,2; 39,62). «Creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che è in essi» (5,17-18; 15-57), Egli è anche il «Creatore degli uomini e di ciò che fanno» (37,69)[4]. Non meno fortemente il libro sacro dell’Islam insiste sulla responsabilità personale di ciascun essere umano verso le proprie azioni e dunque indirettamente sul libero arbitrio, in versetti quali 18,29, 73,19, 74,37, 76,29 e 8,53.

 

I due concetti, antitetici alla nozione di libera volontà, di qadā’ e qadar, sommariamente tradotti con “decreto divino” e “destino”, non sono in realtà propriamente islamici, ma poggiano sulle basi semitiche fornite dalle tradizioni religiose babilonese e israelitica, che consideravano il mondo come replica di quanto già registrato in libri o tabelle celesti[5]. Predominante nell’Arabia preislamica era poi la concezione dell’aspetto distruttore e vendicativo del destino o dahr, inteso come fato cieco e ineluttabile.

 

Una vera e propria teoria predestinazionistica cominciò a manifestarsi con i primi interpreti del Corano, che adottarono un’ottica tendenzialmente fatalistica, divenuta popolare per effetto delle brutali sofferenze sopportate dai musulmani, in particolare gli abitanti dello Hijaz, intorno alla metà del primo secolo islamico. Una serie di sconvolgimenti sociali e politici – dalla brutale uccisione del terzo califfo ben guidato fino all’instaurazione del corrotto califfato omayyade – predisponeva la psicologia della giovane comunità di fedeli a una forma di pubblica rassegnazione, una sorta di inevitabilità, preparando la mentalità a sviluppare, non si può dire quanto inconsciamente, una fatalistica nozione del qadar, tacitamente legata a un graduale processo di fraintendimento del termine.

 

Una prima forma di protesta speculativa contro questa visione predestinazionistica fu avanzata a Damasco, verso la fine del VII secolo, dai teologi qadariti, partigiani del potere dell’uomo sui propri atti e della loro determinazione in bene e in male. I qadariti promuovevano la nozione di tafwīd, ossia di delega all’uomo da parte di Dio del potere di agire, avvicinandosi così al concetto cristiano di autoexoúsios. Le loro posizioni venivano evidenziate nella lettera probabilmente composta da una tra le più rinomate autorità religiose del primo secolo dell’Islam, al-Hasan al-Basrī (m. 728), in risposta a una missiva del califfo omayyade ‘Abd al-Malik, preoccupato dall’interesse che l’influente teologo aveva manifestato per il tema della predestinazione[6]. In questa missiva che, indipendentemente dalla sua attribuzione, resta tra i primi documenti ad affrontare in modo sistematico la questione della responsabilità umana in relazione alle nozioni coraniche di preconoscenza e determinazione divina, si sottolineava come Dio non potesse ordinare atti contrari al suo Decreto, il cui vero significato risiedeva nel Comandamento. Di conseguenza, la trasgressione alla legge divina e le ingiustizie non erano da considerarsi tra gli atti predeterminati dal Signore. In termini simili, la mancanza di fede, pur preconosciuta da Dio, era considerata come derivante dalla libera scelta degli uomini e dal perseguimento dei loro interessi personali.

 

In totale contrapposizione alla teoria del libero arbitrio si schierarono i sostenitori del puro determinismo, i jabariti (da jabr, “costrizione”), secondo cui l’onnipotenza divina privava l’essere umano di qualsiasi potere di agire. Elemento portante della dottrina jabarita, inaugurata da Jahm Ibn Safwān (m. 746), era infatti l’assoluta supremazia e unicità divina, per cui risultava impossibile attribuire ad altri esseri al di fuori di Dio qualificazioni quali agente, creatore o esistenziatore.

 

Mu‘taziliti e ash‘ariti

 

A partire dal IX secolo la discussione sulla libera volontà lasciava spazio nel pensiero musulmano alla sottile riflessione circa l’estensione del potere umano d’azione (istitā‘a); il dibattito sulla predestinazione e il libero arbitrio si mutava così in disputa tra le rispettive sfere d’azione di Dio e dell’uomo nell’originare e determinare il corso degli eventi.

 

Nel sunnismo, tra le scuole di teologia speculativa (kalām), i mu‘taziliti e gli ash‘ariti in particolare sentirono l’esigenza di riconciliare l’idea di un Dio onnipotente creatore di ogni cosa, inclusi gli atti umani, con il concetto di un Dio giusto, che non può rendere uomini colpevoli di atti iniqui – mai scelti o voluti – punendo poi gli individui per azioni imposte loro necessariamente. La visione della scuola mu‘tazilita, tesa a salvaguardare la natura etica di Dio, riconosceva nella giustizia (‘adl) la vera essenza divina e spiegava che Dio può fare e volere solo ciò che è salutare per l’uomo, ordinando ciò che è buono e proibendo ciò che è condannabile. I mu‘taziliti focalizzavano la loro attenzione sulla nozione della qudra o potere di causalità efficiente e riconoscevano l’uomo non solo come essere conoscente, intendente e volente, ma anche come agente e pertanto vero e proprio “creatore” (khāliq) delle sue azioni[7]. In particolare, al-Jubbā’ī (m. 915-6), tra i maggiori esponenti della scuola mu‘tazilita, considerava la causalità umana come effettivamente creatrice perché attiva indipendentemente da Dio, identificando nell’uomo la causa ontologica dell’azione, l’agente che la pone in atto. L’agire umano veniva pertanto a coincidere con il senso di “porre in essere”, cioè di “produrre” in senso limitativo: nella specifica funzione di ideatore-innovatore (muhdith) dell’atto, l’uomo diveniva “avventore”, capace di portare all’esistenza dalla non-esistenza: un produttore ex nihilo.

 

Maestro della scuola mu‘tazilita di Basra, Abū al-Hudhayl al-Allāf (m. 840-1) concepiva invece l’istitā‘a come potere di volontà piuttosto che come capacità di realizzazione. Secondo la sua teoria dei momenti, l’essere umano agisce in un primo momento (il momento dello “star agendo” – yaf‘alu), mentre l’atto accade in un secondo momento (il momento dell’atto avvenuto – fa‘ala). Tale visione implicava la considerazione della volontà umana come assolutamente necessaria e della capacità di agire come necessaria prima dell’atto, ma non più nell’istante dell’avvenuta realizzazione. Nel dominio interiore della volontà, dunque, l’essere umano poteva esercitare una definita libertà di iniziativa e, attraverso la sua scelta, compiere alcune azioni nel mondo esteriore della natura causando effetti. Secondo tale dottrina, l’uomo esercitava una libera scelta che consentiva di optare tra atti giusti o ingiusti, discernendo il principio di giustizia racchiuso nella Rivelazione indipendentemente da quest’ultima e con il solo supporto della ragione.

 

L’abilità umana di giudicare gli atti, la comprensione dei principi morali universali e il potere di capacità efficiente finirono per costituire per i mu‘taziliti le caratteristiche essenziali dell’agente autonomo[8]. Sebbene l’istitā‘a si configurasse come accidente permanente dell’uomo, secondo Abū al-Hudhayl la sua reale potenzialità di realizzazione era data solo nei termini di una specifica situazione, che in se stessa non poteva essere scelta. La capacità dell’essere umano di trascendere l’attualità delle cose e delle situazioni non era perciò in nessun modo quella di una spontaneità creativa, ma solo quella di una scelta tra due alternative all’interno di un contesto definito[9].

 

Per gli ash‘ariti in generale, e in particolare per il capostipite della loro scuola, Abū al-Hasan al-Ash‘arī (m. 935), l’intera questione del libero arbitrio era invece racchiusa nella nozione di onnipotenza divina, che riconosceva in Dio l’unico vero autore di ogni azione, buona o malvagia che fosse. Dio, inteso come Creatore del potere di causazione umano, era pertanto creatore dell’atto o dell’evento che tramite questo potere si realizzava. L’uomo si limitava a impossessarsi, tramite acquisizione (kasb), degli atti creati da Dio. L’atto acquisito si rivelava tale per l’esistenza nell’essere umano di sentimento opposto a quella impotenza caratteristica degli atti forzati, ciò che rimandava indirettamente alla distinzione tra atti volontari e atti obbligatori[10].

 

Nello specifico, al-Ash‘arī concepiva la capacità (qudra) come effettivo potere di causazione da parte dell’uomo al momento della realizzazione dell’evento: «attributo che specificamente determina la realizzazione di uno dei due poli della potenza»[11]. Dio creerebbe nell’agente umano tale potere di causalità solo simultaneamente alla realizzazione dell’atto. Esso tuttavia, come accidente, apparteneva all’essere dotato di potenza (qādir), cioè all’uomo, che ne diventava pertanto il suo muktasib, ossia colui che realmente lo realizzava.

 

La qudra, creata da Dio con l’atto e per l’atto, si delineava come realtà costitutiva del qādir che, comunque, era da concepirsi come tale solo in quanto locus (mahall) in cui il potere divinamente creato si attuava. Da questo concetto sarebbe poi derivata anche la negazione della capacità del potere su due volizioni. Contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza dei mu‘taziliti, per i quali la qudra, essendo anteriore all’atto, consentiva all’uomo, tramite libera scelta, la realizzazione o non realizzazione dell’atto stesso, al-Ash‘arī insistette infatti nel ritenere che la qudra cominciasse a esistere contemporaneamente all’atto e che fosse causa di un unico evento e non del suo opposto.

 

Sostenitore di un nuovo metodo d’indagine filosofica, l’ash‘arita al-Bāqillānī (m. 1013) si allontanò dalla dottrina avanzata da al-Ash‘arī e propose una versione originale del ruolo dell’essere creato nell’agire. Partendo dal presupposto che la potenza umana non fosse ontologicamente designata a porre in esistenza l’atto e vedendo in Dio l’unico creatore, al-Bāqillānī riconosceva però alla potenza generata una efficacia su diversi modi o qualificazioni dell’azione. Secondo tale prospettiva, lo stato specifico, ossia una delle specifiche modalità dell’atto, sarebbe stato il prodotto o l’effetto dell’applicazione (ta‘alluq) della potenza generata all’atto medesimo; tale applicazione altro non era se non una “relazione specifica” che veniva etichettata come “acquisizione”.

 

Nel tentativo d’illustrare il significato del verbo acquisire, tipico della teologia ash‘arita, al-Bāqillānī, specificando la differenza tra atto forzato e atto acquisito, dichiarava: «Acquisire significa che [l’uomo] compie liberamente i propri atti in virtù di un potere [generato] congiunto a tale atto e che gli fa “acquisire” una qualificazione differente dall’atto forzato... Tale qualificazione dell’atto è appunto l’acquisizione»[12]. Era in relazione a questo stato specifico che l’atto comportava ricompensa o castigo. In particolare, sebbene non accreditasse all’uomo il potere di rendere l’atto buono o malvagio, al-Bāqillānī riconosceva all’essere umano la capacità di far sì che la “forma” dei propri atti coincidesse con quanto voluto o rigettato da Dio, conferendo, in tal modo, connotati morali alle azioni.

 

«Né assoluta costrizione, né assoluta delegazione»

 

Nello sciismo duodecimano il dibattito teologico tra libero arbitrio e divina predestinazione, affrontato soprattutto nel IX e X secolo, approdò a una posizione intermedia, come testimoniato dal detto attribuito al sesto imam Ja‘far al-Sādiq (m. 765): «Né assoluta costrizione, né assoluta delegazione, ma qualcosa d’intermedio (lā jabr wa-lā tafwīd wa lākin amr bayn amrayn[13]. Così per Hishām Ibn Hakam, compagno dell’imam, le azioni umane, create da Dio, potevano classificarsi simultaneamente come azioni libere in quanto scelte e azioni obbligate in quanto procedenti da una causa prodotta da Dio.

 

Tale dottrina, adottata dalla scuola teologica di Qom e dal tradizionista imamita al-Kulaynī (m. 941), fu brevemente sostenuta anche dallo shaykh al-Sadūq Ibn Bābawayh (m. 991) il quale, come Hishām, ribadiva che Dio, pur essendo creatore degli atti, non andava considerato responsabile della loro attuazione, essendone soltanto il predeterminatore, cioè colui che ne aveva conoscenza fin dall’eternità. In contrasto, lo shaykh al-Mufīd (m. 1022), appartenente alla scuola imamita di Baghdad, sosteneva che Dio non fosse da ritenersi né creatore degli atti né volitore delle azioni umane malvagie, in tal modo rifacendosi alla corrente mu‘tazilita. A suo avviso l’espressione del sesto imam lā tafwīd, che negava l’assoluta delegazione, indicava semplicemente come Dio avesse imposto all’umanità una legge divina. Questa interpretazione è ancora oggi ufficialmente caratteristica dello sciismo duodecimano.

 

Nel pensiero ismailita, speculazioni teologiche e filosofiche sul tema della predestinazione e del libero arbitrio trovarono espressione nelle opere di grandi pensatori quali, tra gli altri, Abū Hātim al-Rāzī (m. 934), Muhammad Ibn Ahmad al-Nasafī (m. 942), Abū Ya‘qūb Ishāq Ibn Ahmad al-Sijistānī (m. circa 971), il giurista fatimide al-Qādī al-Nu‘mān (m. 974) e il “missionario” (dā‘ī) Hamīd al-Dīn al-Kirmānī (m. circa 1021-22), i quali concorsero a definire i termini coranici qadā’ e qadar, stabilendo precise corrispondenze con le gerarchie ismailite religiose e celesti.

 

Gli autori ismailiti del periodo fatimide, espandendo la dottrina imamita del lā jabr wa lā tafwīd, sostennero che l’uomo, pur capace di scegliere tra bene e male, non fosse in grado di cogliere a pieno le verità del messaggio coranico nella loro essenza essoterica ed esoterica né di distinguere correttamente tra i precetti e i divieti contenuti nella legge religiosa o sharī‘a. L’umana conoscenza, desiderosa di salvezza e ricompensa nell’aldilà, necessitava pertanto di un perfezionamento. Questo veniva offerto dalla guida di una gerarchia di maestri divinamente designati tra cui i profeti, i loro legatari, i legittimi imam e l’intera catena di dignitari e funzionari religiosi ismailiti, autorevoli interpreti, attraverso il ta’wīl o esegesi esoterica, dell’autentico significato spirituale della rivelazione islamica. In tal modo il dibattito sulla libertà umana veniva da ultimo ricollegato all’individuazione dei criteri etici dell’agire e alla questione dell’autorità religiosa.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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Per approfondire:

Georges C. Anawati, Louis Gardet, Introduction à la théologie musulmane, Vrin, Paris 1970.

Maria De Cillis, Free Will and Predestination in Islamic Thought: Theoretical Compromises in the Works of Avicenna, al-Ghazālī and Ibn ʿArabī, Routledge, London and New York 2014.

Richard M. Frank, Early Islamic Theology: The Muʿtazilites and al-Ashʿari. Texts and Studies on the Development and History of Kalam, vol. II, Ashgate/Variorum, Aldershot 2007.

Richard M. Frank, Classical Islamic Theology: The Ashʿarites. Texts and Studies on the Development and History of Kalam, vol. III, Ashgate/Variorum, Aldershot 2008.

Louis Gardet, Dieu et la destinée de l’homme, Vrin, Paris 1967.

Louis Gardet, Quelques réflexions sur un problème de théologie et de philosophie musulmanes: toute-puissance divine et liberté humaine, «Revue de l’Occident musulman et de la Méditerranée» 13-14 (1973), pp. 381-394.

 


Note

[1] Corano 2,256: «Non vi sia costrizione nella Fede (lā ikrāh fī al-dīn): la retta via ben si distingue dall’errore». La versione del Corano usata in questo articolo è a cura di Alessandro Bausani, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1998.
[2] L’accentuazione del concetto di una predeterminazione assolutamente inevitabile comportava una forma di fatalistica rassegnazione all’ineluttabilità di eventi o azioni spesso inaccettabili. In tal modo il principio della predeterminazione divina, comodamente frainteso, poteva, come accadde, configurarsi come sufficiente alibi per la perpetrazione di atti ingiusti. Così gli omayyadi poterono giustificare il loro governo corrotto sulla base dell’argomento che ogni loro azione era divinamente voluta e preordinata.
[3] Il Profeta avrebbe istruito i credenti ad astenersi da considerazioni relative al destino (qadar), definendolo come un mare profondo, un sentiero oscuro e il segreto di Dio. Tra le più autorevoli figure intellettuali sunnite, il teologo nonché maestro sufi Abū Hāmid al-Ghazālī (m. 1111), nel suo capolavoro La rivivificazione delle scienze religiose (Ihyā’ ‘ulūm al-dīn, Dār al-Qalām, Bayrūt 1980 ca., vol. 1, p. 50), riporta la tradizione secondo cui Muhammad avrebbe proclamato: «Astenetevi dal parlare del qadar».
[4] Altri versetti coranici richiamano la nozione di onnipotenza divina, per esempio: «L’impresa, ogni impresa è di Dio» (3,6); «Egli è sopra ogni cosa potente» (22,6); «Tutto è stato scritto prima di essere creato» (57,22).
[5] Arent Jan Wensinck, The Muslim Creed, Cambridge University Press, Cambridge 1932, p. 54.
[6] Tra i sostenitori della paternità di al-Basrī figurano, inter alia, Hellmut Ritter, Studien zur islamischen Frömmigkeit I: Hasan al-Basri, «Der Islam» 21 (1933), p. 57; Josef van Ess, Anfänge muslimischer Theologie. Zwei antiqadaritische Traktate aus dem ersten Jahrhundert der Hira, Franz Steiner Verlag, Beirut e Wiesbaden 1977, pp. 27-28; Id., Theologie und Gesellschaft im 2. und 3. Jahrhundert Hidschra, De Gruyter, Berlin 1991-1995, vol. II, p. 48; Michael Schwarz, The Letter of al-Hasan al-Basrī, «Oriens» 20 (1967), pp. 15-30. Studi recenti tendono a contestare l’autenticità dell’attribuzione della lettera ad al-Hasan al-Basrī. Si vedano le considerazioni di Michael Cook, Early Muslim Dogma, Cambridge University Press, Cambridge 1981, pp. 112-123, e di Suleiman A. Mourad, Early Islam between Myth and History. Al-Hasan al-Basrī (d. 110H/728CE) and the Formation of His Legacy in Classical Islamic Scholarship, Brill, Leiden e Boston 2006, pp. 176-239.
[7] Il termine khalaqa era stato usato fino ad allora, in riferimento all’uomo, con massima meticolosità in virtù della nozione, particolarmente cara ad al-Ghazālī, secondo cui la vera creazione implica la conoscenza di tutti gli effetti di suddetta creazione ed è conseguentemente impossibile per l’uomo che non possiede se non una generale conoscenza delle sue azioni. Al-Ghazālī, al-Iqtisād fī al-I‘tiqād, a cura di I. A. Çubukçu e H. Atay, Nur Matbaası, Ankara 1962, p. 92.
[8] Richard M. Frank, Several Fundamental Assumptions of the Basra School of the Mu‘tazila, «Studia Islamica» 33 (1971), p. 10.
[9] Maria De Cillis, Free Will and Predestination in Islamic Thought: Theoretical Compromises in the Works of Avicenna, al-Ghazālī and Ibn ‘Arabī, Routledge, London and New York 2014, pp. 10-16.
[10] In saggi teologici dell’epoca il concetto di kasb veniva decodificato in termini di volontà «da cui è rivestito e accompagnato l’effetto prodotto». Louis Gardet, Dieu et le destinée de l’homme, Vrin, Paris 1951, p. 64.
[11] Richard M. Frank, The Structure of Created Causality according to al-Ash‘arī, «Studia Islamica» 25 (1966), pp. 26-30.
[12] Daniel Gimaret, Théories de l’acte Humain en théologie musulmane, Vrin, Paris 1980, pp. 102-103.
[13] Muhammad Ibn Ya‘qūb al-Kulaynī, al-Usūl min al-kāfī, a cura di ‘Alī A. Ghaffārī, Tehran 1375/1955 (ristampa Beirut 1405/1985), vol. 1, p. 160, hadīth n. 13.