L’Islam al crocevia: tradizione, riforma, jihad: l’editoriale del direttore di Oasis Martino Diez
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 16:41:21
Se il Novecento è stato, secondo la celebre espressione di Eric Hobsbawm, “il secolo breve”, il periodo che nel mondo islamico si dispiega dai primi dell’Ottocento fino a oggi merita forse l’appellativo di “secolo lungo”: quasi duecento anni dominati, in un modo o nell’altro, dal confronto con un Occidente diventato d’un tratto invadente presenza fisica e orizzonte di un ineludibile paragone culturale.
L’epilogo di questo “secolo lungo” sembra tragico: un’ondata di violenze investe interi Paesi. Ma se un’alternativa esiste, è proprio in questo percorso che bisogna andare a cercarla: nelle false partenze, nei sentieri interrotti, nei nodi irrisolti accumulati negli anni. Ripercorrere le principali tappe di questa vicenda, come questo numero si propone di fare, non è allora un cedimento a un’archeologia che, non trovando parole adeguate per descrivere il presente, si rifugia nel racconto di ciò che è stato, ma l’unica via per pensare un esito diverso. È l’anamnesi che – insegna la medicina – precede la diagnosi e la cura. Due parole dominano, nel bene e nel male, l’intero periodo: crisi e riforma. Crisi, perché la forma classica della civiltà islamica, concretizzatasi in ultimo nei tre grandi imperi ottomano, safavide e moghul, da metà Settecento non appare più in grado di reggere il confronto con l’espansionismo europeo. E riforma, perché la soluzione viene individuata in un ripensamento, più o meno radicale, della stessa tradizione islamica.
Di tale riforma quattro sono schematicamente i centri: l’Egitto, dove sono attivi Jamâl al-Dîn al-Afghânî (per quasi un decennio) e soprattutto Muhammad ‘Abduh (1849-1905), dal cui caftano, secondo l’efficace immagine di Sherif Younis, escono tutte le correnti dell’Islam contemporaneo. La tesi che facciamo propria – decisamente minoritaria – vede infatti in ‘Abduh una parte del problema e non la sua disattesa soluzione. Non si capirebbe altrimenti come dal suo insegnamento discenda non solo la corrente modernista, che mira in ultima analisi a risolvere l’Islam nel saeculum, ma anche un Rashîd Ridâ e – mediatamente – un Hasan al-Bannâ, teorici dell’Islam politico che quel saeculum aspirano nuovamente a islamizzare. Entrambe le correnti coltivano in realtà lo stesso mito delle origini, l’Islam degli antichi in cui “tutto andava bene”, e lo stesso disprezzo per una storia avvertita come progressiva degradazione, differendo soltanto – ma la differenza è centrale – nella definizione di tale epoca d’oro. Per i seguaci liberali di ‘Abduh, essa è un insieme di grandi personalità (i primi Compagni di Muhammad, ma anche figure come al-Ghazâlî o Ibn Khaldûn), mentre per la scuola di Ridâ s’identifica con la pratica concreta delle prime tre generazioni di musulmani, i salaf. Così facendo, la parte più conservatrice dei discepoli di Ridâ finisce per incontrare un movimento più antico e anch’esso in un certo senso riformista: il wahhabismo saudita nato nell’Arabia del Settecento, “mutante” religioso di cui Hamadi Redissi ricostruisce le tormentate vicende fino all’odierno successo globale nella forma del salafismo.
Altro centro di riforma è senza dubbio l’India: come illustra Aminah Mohammad-Arif, nel contesto del dominio coloniale britannico emergono figure profondamente influenzate dal razionalismo europeo, ma vede anche la luce il più efficace movimento di recupero dell’identità islamica, il tabligh, oggi diffuso in tutto il mondo, e la potente scuola Deobandi. Né l’Iran resta a guardare: Forough Jahanbakhsh dimostra come la Rivoluzione islamica del 1979 costituisca uno spartiacque, costringendo gli intellettuali sciiti, laici e religiosi, a ripensare il rapporto tra religione e politica nel contesto di un regime di doppia sovranità, popolare e teocratica.
Tali movimenti si mescoleranno e “meticceranno” infinite volte, dando origine al frastagliato panorama odierno in cui «tutti parlano a nome dell’Islam, ma non dello stesso Islam; ognuno lo reinventa nel presente» (Hamadi Redissi). Denominatore comune infatti è la decomposizione e ricomposizione del sapere religioso tradizionale, utilizzato come “cassetta degli attrezzi” da cui attingere, di volta in volta, lo strumento che meglio serva al proprio scopo.
Elevatissimo in questo modo d’agire è però il rischio di un approccio ideologico e frammentario, di cui l’articolo di Wael Farouq offre un esempio eccellente attraverso la discussione delle fatwe relative all’“allattamento degli adulti”, improbabile soluzione con cui uno shaykh egiziano aveva ipotizzato di risolvere il problema della promiscuità sui luoghi di lavoro. Nasce allora una “modernità posticcia” né veramente moderna né realmente islamica. Prima di gettarsi nella girandola delle soluzioni puntuali, sembra allora necessario recuperare una fondamentale attitudine all’interrogarsi, di cui le pagine di al-Jâhiz e di al-Ghazâlî nella sezione dei classici offrono un penetrante esempio. Mentre l’ideologizzazione potrà essere evitata dalla valorizzazione dell’esperienza di fede, empaticamente descritta da Louis Gardet in un brano davvero magistrale.
Ricostruita dunque, per quanto sinteticamente, la complessa genealogia dell’Islam contemporaneo, gli articoli di Hassan Rachik sulla questione femminile in Marocco e di Michele Brignone sul ruolo di al-Azhar nell’Egitto odierno offrono due esempi concreti delle modalità con cui i diversi attori fin qui delineati interagiscono in un teatro sempre più globale. Senonché negli ultimi decenni un ospite inquietante si è accaparrato porzioni sempre più estese del palcoscenico: è la violenza jihadista, nata dall’incrocio tra salafismo quietista e Islam politico rivoluzionario. Hamit Bozarslan ne ricostruisce l’ascesa, fino ad arrivare alla “lucida irrazionalità” di Isis, da cui non è assente – lo ricorda l’articolo di David Cook – la dimensione apocalittica ed escatologica. Di fronte alla sfida rappresentata dall’autoproclamato califfato sembra essenziale dar voce alle vittime: lo fa Maria Laura Conte in un vibrante reportage dai campi profughi del Kurdistan iracheno, che è anche una storia in presa diretta di un secolo di cristianità irachena.
Non si rifletterà mai abbastanza sul fatto che la religione del terrore, a cui i militanti di Isis si convertono, ha nel suicidio il suo emblema e la sua cifra. Moderna nei mezzi, essa persegue un fine puramente negativo: l’annientamento in vista della rigenerazione escatologica. È questo un modo estremo di trattare il problema della civiltà moderna: servirsene per annientarla e annientarsi. È – almeno in parte – un nichilismo.
La storia che raccontiamo in questo numero è insomma quella del progressivo sfaldarsi del variegato edificio dell’Islam classico – certo non perfetto, ma quantomeno serenamente “contemporaneo di sé stesso” – per lasciare il campo a una varietà di attori in feroce competizione ideologica. Sembra ora che tale processo di frammentazione abbia condotto il mondo musulmano a un crocevia decisivo. Al centro sta ormai la questione non più rinviabile della violenza, tema destinato probabilmente a riplasmare il campo religioso islamico, inducendo una polarizzazione, a favore e contro. Da qui potrebbe allora sorgere un nuovo “consenso”. Anche perché l’alternativa sarebbe soltanto il proseguimento della lotta, fino a fare di tutto il Medio Oriente un fumante cumulo di macerie.
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